“Viaggio
nella musica” è
un mini-tour alla scoperta dei significati, dei segreti, delle follie
e delle complessità che si nascondono dietro e dentro alla musica.
Abbiamo intrapreso questa insolita esplorazione per comprendere come
nasce una canzone, come si prepara un concerto, come si diffonde la
musica. Sono venuti con noi musicisti e addetti ai lavori che hanno
messo a disposizione tempo ed esperienza. A tutti loro va il nostro
ringraziamento e la nostra stima. Un ringraziamento speciale a Maurizio
Principato, giornalista e musicologo, ideatore del progetto
che ci ha accompagnato in questo viaggio con la sua professionalità
e grande passione per la musica.
Viaggio nella musica –
partiamo?
Diciamo
subito che tratteggiare una storia della musica sintetica è un'impresa
quasi impossibile. Abbiamo cercato piuttosto di evidenziare i passaggi
importanti, i momenti salienti ed i cambiamenti strutturali fondamentali
che hanno caratterizzato l'evoluzione dell'espressività musicale
a partire dall'antichità.
Se
volessimo descriverle in modo razionale, le forme musicali (canzone,
opera, suite, ecc) sono costituite da un insieme di note, sonorità
e/o parole, organizzate e strutturate per essere ascoltate. La
musica nacque -agli albori dell'umanità- per scopi rituali.
Nel corso del tempo si è avvicinata sempre di più alla
vita dell'essere umano e, oggi, è parte integrante, quando non
determinante, delle nostre giornate. La musica ha una forte
incidenza sulla nostra componente spirituale, assecondando, enfatizzando
o smorzando -a seconda dei momenti e degli umori- gli stati d'animo
più disparati. Se siamo allegri l'ascolto di una determinata
canzone può renderci euforici. Se siamo appena appena malinconici
può portarci a commuoverci profondamente. E può tenerci
compagnia in qualsiasi istante, mentre studiamo o lavoriamo, in sala
d'aspetto o al supermercato, quando siamo in viaggio, quando una giornata
sta iniziando oppure quando si sta spegnendo.
Ma come arriva, la musica, a conquistare una parte così importante
nella quotidianità di così tante persone? Quali percorsi
segue, a partire dai suoi “esordi” per incarnarsi -ad esempio-
nelle canzoni pop che le emittenti radiofoniche ci propongono? E soprattutto
perché la musica ha così tanti volti e può assumere
-di volta in volta- connotati talmente diversi che, messa a confronto,
la stessa composizione può estasiare una persona e disgustarne
un'altra?
Con il supporto del giornalista e musicologo Maurizio Principato, abbiamo
deciso di esplorare la storia della musica per arrivare a rispondere
a queste (e a moltissime altre) domande, seguendo strade che ci hanno
portato dalla preistoria agli antichi greci, dal medioevo all'illuminismo,
dal dopoguerra al terzo millennio. In ognuna di queste epoche
la musica ha seguito il cammino dell'umanità, testimoniando cambiamenti
ed evoluzioni.
Il nostro lavoro si è concretizzato in una serie di incontri
presso l’Aula Magna dell’ITC di Poppi, ai quali abbiamo
dato il nome “Viaggio nella Musica”. Perché di un
viaggio si tratta, un viaggio nello spazio, nel tempo, tra le dimensioni
dell'espressività. Siamo -sostanzialmente- in tournée,
invece di esibirci davanti al pubblico con una serie di composizioni
facciamo esibire la musica, i suoi protagonisti, la loro opera omnia,
al fine di comprendere meglio il loro lavoro e la loro importanza artistica
e sociale. Per questo in ognuno degli incontri l'esposizione
teorica è affiancata alla proiezione di video musicali e alla
testimonianza diretta di artisti, professionisti, giornalisti, addetti
ai lavori, ai quali è demandato il compito di aprire una finestra
di visibilità sul loro lavoro.
La prima tappa di “Viaggio nella
musica” ha avuto come oggetto 'la canzone'. Nel
corso di quest'incontro sono intervenuti il cantante e compositore Marco
Parente, il chitarrista Massimo Fantoni, l'insegnante,
interprete-regista teatrale e ballerina Alessandra Aricó,
il critico musicale e direttore della rivista "Jam" Roberto
Caselli, l'esperto di musica e designer Alessandro
Zanoni. Ognuno di loro ha contribuito, parlando o interpretando
dei brani, a rendere l'esplorazione della canzone ancora più
approfondita ed efficace, mentre Maurizio Principato
ha illustrato in sintesi, ma in modo molto piacevole ed interessante,
la storia della musica a partire dalla Grecia antica sino ad arrivare
al XVI secolo e all'affermazione della canzonetta. Il tutto è
stato sapientemente riassunto nel primo dei tre volumetti che costituiscono
il sussidio cartaceo del nostro "Viaggio nella musica", distribuiti
ai presenti in occasione di ogni singolo incontro. Qui di seguito riportiamo
i testi del primo.
1.
L’ALBA DELLA MUSICA
La
ricerca delle origini di ciò che, ancora oggi, intendiamo con
la parola “musica” ci porta indietro nel tempo.
Un viaggio a ritroso che si spinge in epoche remote, sino ad arrivare
all’antica Grecia, dove una forma rudimentale e primitiva di musica
veniva realizzata con un numero esiguo di strumenti a fiato e a corda.
Non esisteva ancora il concetto di armonia (ovvero la combinazione simultanea
di più suoni ed accordi, basata sui principi della tonalità);
la melodia (cioè la successione di suoni di varia altezza e durata,
avente senso musicale compiuto) era estremamente elementare e contenuta,
quasi timorosa di avventurarsi in territori sonori ignoti; il ritmo
praticamente assente.
Era la voce -recitante- a scandire dinamica, avvicendamenti, pause,
attacchi. Musica e poesia erano profondamente legate nell’antica
Grecia: Omero era il più noto tra i molti cantori che, accompagnandosi
con la cetra, andavano “in tour” a declamare versi, più
o meno cantati.
Secondo Hermann Abert (musicologo, 1871-1927, autore -tra le altre cose-
di una monumentale biografia di Wolfgang Amadeus Mozart pubblicata per
la prima volta nel 1919) la musica si divide in ritmo -l’elemento
sensuale e fisico-, melodia -l’elemento emotivo e psichico- e
sostanza musicale -l’elemento contemplativo, riflessivo ed artistico-.
I greci concentrarono la loro attenzione sugli aspetti emozionali
della musica, sulla sua potenziale capacità di agire
sull’umore e, soprattutto, sulla volontà del singolo individuo,
producendo un aumento di energia, oppure una condizione di nervosismo
o, ancora, di estasi ed ebbrezza. Meno teorici e ancora meno speculativi,
gli antichi Romani ebbero un approccio meramente ludico, voluttuario
e concreto con la musica: la usavano nel corso di feste e baccanali,
nelle rappresentazioni teatrali, oppure durante cerimonie ufficiali
e parate militari.
2.
CANTO GREGORIANO E CANTO PROFANO
Fu il Cristianesimo ad
elevare spiritualmente la concezione della musica: dapprima
per unire officiante e fedeli, poi per dare corpo e forma artistica
al sentimento dei divino e dello spirituale, in un crescendo rapito
di sublime misticismo.
In seno alla Chiesa, durante il Medioevo, nacque il canto gregoriano,
forma musicale liturgica basata sul canto vocale monodico che prende
il nome da San Gregorio Magno, il quale definì le regole di base
(eliminando o respingendo elementi profani o esotici che esulavano da
contenuti prettamente religiosi) e, inoltre, fece un meticoloso lavoro
di codificazione e di sintesi. L’opera del santo venne racchiusa
nel testo Antiphonarius Cento. I principi di base del canto gregoriano
prendevano due nomi, accentus e concentus. L’accentus (o canto
sillabico) fu la prima forma di canto sacro e consisteva in una recitazione
svolta sulla medesima nota ripetuta (salmodia). Il canto gregoriano
non aveva alcuna pretesa artistica: la salmodia liturgica era preghiera,
linguaggio collettivo, espressione fisica e spirituale. Per questa ragione
era un canto “facile”: doveva essere appreso ed eseguito
da tutti i fedeli, anche da coloro che di musica non sapevano un bel
niente. Ma nella sua semplicità racchiude un elemento basilare:
l’unione tra corpo (voce) e spirito (canto).
Nell’alto Medioevo ci fu uno sviluppo del canto profano,
basato su scherzi, novelle fantastiche, storia di vita vissuta o riflessioni
sul senso della vita e della morte. La Chiesa non vide di buon occhio
questa fioritura artistica -in quanto non liturgica- e organizzò
spietate persecuzioni, con lo scopo di cancellare ogni traccia di profanità
in campo musicale. Per fortuna questa azione dissennata non ebbe esiti
definitivi e ai giorni nostri sono arrivate delle testimonianze importanti,
come i Carmina Burana (scritti intorno all’anno
1230 e così’ chiamati perchè rinvenuti nel chiostro
benedettino di Beuren, in Germania), una raccolta di canti goliardici
e scollacciati dove una lingua latina raffazzonata si mescolava con
le nascenti lingue volgari.
3.
IL POP DEL MEDIOEVO
Ma fu grazie all’attività di trovatori
e trovieri (poeti e musici non stanziali, che esercitavano
la loro arte nelle corti francesi e spagnole) che il canto profano
si rinnovò ed acquisì una forma definita. L’intonazione
della parola e la scansione ritmica acquisirono maggior carattere, rispetto
alle ondeggianti (e, verrebbe da dire usando un termine recente, “psichedeliche”)
cantate gregoriane. I contenuti, inoltre, allontanandosi dalla contemplazione
e dalla devozione, diventarono descrizione o commento della quotidianità.
Era, in sostanza, musica pop (da “popular”, cioè
popolare), che si fondava su una nuova sensibilità artistica,
intenzionata a mettere alla porta l’astrazione e pronta a parlare,
anzi cantare della bellezza della natura, della sensualità femminile,
dei piaceri della carne e dei dolori della guerra (dolori di ogni genere,
dalla morte sul campo di battaglia all’infedeltà delle
mogli dei condottieri).
Il tutto racchiuso in quella che viene denominata chanson, eseguita
dai raffinati -e un po’ snob- trovatori, sì, ma anche da
giullari e menestrelli, che operavano volentieri in contesti aperti
(strade, piazze, cortili).
Gli antenati dei nostri Claudio Baglioni, Eros Ramazzotti e Tiziano
Ferro furono i Minnesinger, i cantori d’amore,
il cui repertorio si basava su canzoni che celebravano l’amor
cortese e l’elevazione dello spirito. I cambiamenti in atto nel
XIII secolo portarono ad un imborghesimento dei Minnesinger, soppiantati
dai Meistersinger: scomparivano freschezza, spontaneità e spirito
girovago, in favore di una sedentarietà e di una vuota, arida
pedanteria che non produsse nessuna evoluzione significativa.
4. LA NASCITA DELLA POLIFONIA
Con il termine monodia si intende
il canto a una sola voce, eseguito da uno o più cantanti, con
o senza accompagnamento strumentale. Tra l’inizio del 1100 e la
fine del 1200 emersero e maturarono le primissime forme di polifonia,
ovvero il canto a più voci: al canto principale si associavano
voci concomitanti, che procedevano all’unisono o in contrasto.
Sulle origini della polifonia esistono numerose interpretazioni, che
la descrivono come generata dall’improvvisazione spontanea scaturita
all’interno di gruppi di cantori oppure dall’utilizzo di
strumenti musicali che permettevano di mantenere una nota fissa -risonante-
di accompagnamento e di suonarne altre contemporaneamente. Naturalmente
la polifonia delle origini è rozza e sgraziata, ma il fatto importante
è che questo nuovo sviluppo musicale apre strade inesplorate
e virtualmente infinite, che partono sempre e comunque dalla cultura
popolare. La polifonia suscita l’interesse di esecutori e compositori
legati al mondo cristiano. Tra questi va ricordato l’organista
della cappella parigina della Beata Maria Vergine (in seguito chiamata
Notre-Dame) magister Perotinus Magnus. Vissuto a cavallo
tra XII e XIII secolo, Perotinus seppe riunire abilmente fino a quattro
voci, orchestrandole con sensibilità ed intelligenza, dando forma
al primo esempio di mottetto (una forma sacra polifonica vocale o vocale-strumentale)
nel quale muovevano i primi passi l’imitazione a canone -che è
la combinazione di una melodia ripresa successivamente da tutte le voci-
e un più complesso sviluppo melodico.
La rivoluzione del gusto musicale che prese il nome di Ars Nova
nacque in Francia ed era connotata dalla libertà di
agire del compositore, che ancor prima di sottostare a regole o schemi,
faceva appello al proprio sentire, svincolandosi anche dalle costrizioni
imposte -sino a quel momento- dalla parola e dalla metrica latina. Poteva
addirittura permettersi di fare uso di dissonanze e frammentazioni ritmiche:
una cosa impensabile, almeno sino a quel momento.
5. ED ECCO FINALMENTE GLI ITALIANI!
I fermenti polifonici francesi e tedeschi non
trovarono ecoimmediata
nel nostro Paese (anzi, in quel territorio che, all’epoca, poteva
essere identificato come “italiano”) sino alla metà
del 1300. Ma quando la polifonia italiana uscì allo scoperto
lo fece con una maturità artistica sorprendente, abile nel recepire
le istanze musicali dell’Ars Nova e nell’acquisire il sapere
delle schiere di musicisti o cantori francesi in transito sul suolo
italiano per seguire il Papa durante il trasloco da Avignone al futuro
Vaticano. Le caratteristiche della nuova musica italiana erano due:
il gusto innato per il bel canto e il taglio realistico delle
“storie” cantate e raccontate. Grande varietà
e leggerezza per ciò che concerneva i temi: stare a zonzo tutto
il giorno, fare un po’ i cascamorti con le belle donne, divertirsi
alle feste di piazza o di corte, bighellonare con gli amici alla ricerca
di vino e, infine, darsi un tono ed andare a pentirsi nel confessionale.
Insomma, l’intramontabile way of life all’italiana!
La polifonia italiana assunse tre forme musicali principali:
il madrigale (breve composizione poetica dal contenuto moderatamente
appassionato), la ballata (composizione schietta ed elementare, ma ricca
di variazioni formali e di carattere popolaresco) e la caccia (composizione
che descrive scene movimentate e piene d’agitazione, connotata
dall’uso massiccio dell’imitazione a canone per ricreare
suoni e ambienti reali).
6.
LA RIVOLUZIONE FIAMMINGA
Tra un incarico ecclesiastico e l’altro,
l’avvocato e nobile fiorentino Francesco Guicciardini ebbe modo
di prestare orecchio alle fantasie musicali dei compositori
fiamminghi, arrivando a definirli (all’alba del ‘500)
“i veri padroni della musica”. Non era
un giudizio eccessivo. Essi, infatti, seppero prendere il meglio delle
tradizioni musicali dell’epoca -inclusa quella della scuola italiana-
e portarle ad un grado sorprendente di maturazione, gettando le basi
di quella che, in seguito, diventerà l’espressività
propria dell’orchestra e infarcendo di virtuosismi vocali le composizioni.
In particolare va riconosciuta ai maestri fiamminghi (operanti nel territorio
che corrisponde grosso modo a Belgio, Olanda e Francia del Nord) il
merito di aver dato al contrappunto dei connotati definiti:
non più semplicemente nota contro nota, ma un’arte di combinare
più melodie, abbinandole, affiancandole o sovrapponendole secondo
regole precise che lasciavano comunque grande libertà espressiva
a chi scriveva musica. Anche l’imitazione canonica cresce artisticamente
grazie al contributo fiammingo.
Non è azzardato tracciare un parallelismo tra l’abilità
nel lavorare con minuzie infinitesimali sia dei pittori che dei compositori
fiamminghi: in entrambe gli ambiti artistici nulla viene lasciato al
caso, anche il dettaglio marginale è seguito, controllato e portato
a compimento, perdendo marginalità ed acquistando importanza
globale.
Tornando strettamente alla musica, il testo rappresentato nei canti
veniva a perdere di importanza, surclassato dall’esecuzione che
finiva per vedere in azione un groviglio di voci. Il rischio incombente
era quello di trasformare ogni esecuzione in un magma caotico di suoni
vocali, ma la polifonia fiamminga riuscì sempre a mettere in
equilibrio tecnicismo e invenzione, metodo ed emozione, calcolo e passione.
La portata innovativa fu tale che la “rivoluzione fiamminga”
travolse l’intera Europa. Anche l’Italia fu costretta
a riconoscere il primato fiammingo, ma i compositori nostrani -con lungimiranza
e acume- anziché respingere l’invasione ne assorbirono
schemi, regole e principi, arricchendoli (nel corso di decine di anni
di lavoro quasi sotterraneo) con ispirazione melodica, senso dell’armonia
e gusto musicale mediterraneo
7. IL SECOLO DELL’ARMONIA E DELLA
CANZONETTA
Per quanto, nel ‘500, fosse imprudente andare
in giro di notte disarmati e con i propri averi in vista, in questo
secolo la musica registrò un’ulteriore, basilare maturazione,
riconducibile alla nascita dell’armonia. Le esecuzioni
musicali acquisirono un equilibro che metteva sullo stesso piano il
contrappunto e la tonalità. Lo stacco dall’arte musicale
del secolo precedente -e, in particolare, dal lavoro dei maestri fiamminghi-
arrivò con decisione. La forma polifonica più importante
che vide la luce in questo periodo fu la messa, ovvero la produzione
musicale per il servizio sacro. Il compositore insofferente
alle rigidità e agli schemi della messa rivolse la propria attenzione
al mottetto (meno condizionato da esigenze prettamente
liturgiche e, quindi, più idoneo a dare spazio all’ispirazione)
oppure al madrigale, che dominò gli ambiti di musica profana
per tutto il ‘500.
La polifonia cinquecentesca venne dominata da due scuole: quella
romana (più vicina al sacro) e quella veneziana (più vicina
al profano). Quest’ultima influenzò profondamente
l’opera di Claudio Monteverdi, il compositore
cremonese che tra il XV e il XVI secolo portò il madrigale al
punto finale di evoluzione, grazie ad una scrittura pregna di espressività
e umanità che non scadeva mai nel cerebralismo o, all’opposto,
nel sentimentalismo. Monteverdi si spinse artisticamente oltre e, terminato
il lavoro sul madrigale contrappuntistico, mise le
mani sulla canzonetta, nata come sottoprodotto popolare
ma -in questo periodo- ridefinita nei contenuti e nella forma in modo
attento e rispettoso.
For
Those About Rock
IL
ROCK DALLE ORIGINI AD OGGI
Musicalmente
la seconda metà del ‘900 è stata caratterizzata
dalle evoluzioni estreme della musica classica contemporanea, dalla
nascita del free jazz e soprattutto dalla diffusione, e dalla eclatante
affermazione, del rock, un genere musicale nato negli Stati
Uniti intorno alla metà degli anni ’50 e successivamente
rimodellatosi in una miriade di generi, modalità e forme espressive.
Un cammino che, a dispetto delle critiche mosse da un nutrito numero
di detrattori (convinti –a torto- che il rock sia morto e sepolto
da un bel pezzo), continua a testimonianza del fatto che ancora molte
sono le strade da battere ed esplorare.
Rock è sinonimo di energia, passione, spontaneità,
gioia, sudore, vitalità ma anche di ribellione, sofferenza, tensione,
nichilismo, violenza, autodistruzione.
Abbiamo individuato le correnti rock più rilevanti che, a partire
dalle origini, hanno descritto i cambiamenti strutturalmente determinanti
(Rock’n’roll, British Invasion, Pop, Garage e Psichedelia,
Indie Rock, Heavy Metal) e le abbiamo descritte, aggiungendo una piccola
ma sostanziosa discografia consigliata.
Buona
lettura e, come scrisse Neil Young, “Rock’n’Roll
Will Never Die”!
1. ROCK'N'ROLL
Che cos’è il rock and roll?
Nella sua forma più pura e basilare si tratta di canzoni di durata
media, basate su tre semplici accordi, un ritmo insistente,
una melodia accattivante ed un ritornello facile da ricordare,
canticchiare, fischiettare.
Tutto qui? Sì.
Nella sua forma più pura e basilare si tratta di canzoni di durata
media, basate su tre semplici accordi, un ritmo insistente,
una melodia accattivante ed un ritornello facile da ricordare,
canticchiare, fischiettare.
Tutto qui? Sì.
Sin dal suo esordio il rock’n’roll si presenta come un genere
musicale impuro, che prende spunto con disinvoltura e sfacciataggine
da blues, country, gospel, jazz, folk, aggiungendo altri ingredienti
non strettamente musicali, come la voglia di divertirsi, di ballare
e di trasgredire.
E soprattutto di prendere le distanze dal passato.
I pionieri del rock’n’roll
si chiamano Bill Haley (che con la sua
“(We’re gonna) Rock Around The Clock”, nel 1955, dà
inizio all’era del rock), Chuck Berry,
Little Richard, Jerry Lee Lewis, Buddy Holly,
Bo Diddley, Gene Vincent e, soprattutto, Elvis “The
King” Presley.
Le invenzioni musicali degli artisti sopra citati (la lista, naturalmente,
è incompleta) hanno fatto scuola e sono state di riferimento
per tutte le generazioni successive, che hanno eretto sovrastrutture
armoniche e melodiche via via più sofisticate, complesse o -semplicemente-
imprevedibili, dando vita a miriadi di correnti espressive, dal beat
alla psichedelia, dal glam all’hard rock, dal punk all’indie
rock. In Europa, nei favolosi anni ‘60, gruppi come Beatles,
Rolling Stones, Kinks e Small Faces, ovvero gli alfieri della
“british invasion”, arricchirono il rock’n’roll
con sviluppi melodici raffinati, arrangiamenti orchestrali, testi di
spessore e operarono i primi, riusciti tentativi di contaminazione musicale.
Dagli Stati Uniti arrivò la risposta, acida e impulsiva, di Velvet
Underground, Sonics, Stooges, Doors e Grateful Dead, che aprirono
le porte alla sperimentazione, alle dissonanze, allo scandalo, all’innovazione,
alla ricerca “dal vivo” (il concerto non era solo il momento
dell’esecuzione di una serie di canzoni, ma diventava il luogo
in cui creare qualcosa di nuovo ed inedito).
Il rock’n’roll nacque come forma di reazione spontanea
alla canzone melodica tradizionale americana e dava voce ai desideri,
alle pulsioni, agli umori di una fascia di età che in precedenza
non aveva mai brillato di luce propria: l’adolescenza.
IL
ROCK’N’ROLL IN SEI ALBUM:
Elvis Presley, “Elvis Presley” (RCA, 1956)
Buddy Holly, “The “Chirping” Crickets”
(MCA, 1957)
Little Richard, “Here’s Little Richard”
(Specialty, 1957)
Chuck Berry, “Chuck Berry Is on Top” (Chess,
1959)
Eddie Cochran, “Eddie Cochran” (Liberty,
1960)
Jerry Lee Lewis, “Jerry Lee’s Greatest”
(Rhino, 1961)
2. BRITISH INVASION
Intorno alla metà degli anni ‘60 gli artisti rock’n’roll
statunitensi si trovarono a dover fronteggiare un attacco senza precedenti
sferrato dall’Europa, e in particolar modo dalla Gran Bretagna.
Il primo gruppo a mietere successi in patria e, subito dopo, anche oltreoceano
furono i Beatles, che
da Liverpool diffusero un nuovo modo di scrivere canzoni, di suonare
e di cantare. Grazie all’intraprendenza del loro geniale manager
Brian Epstein e del loro arrangiatore -e maieuta- George
Martin, in seguito identificato come “il quinto Beatle”,
il quartetto si impose massicciamente all’attenzione mondiale,
finendo sotto tutti i riflettori sia per ragioni squisitamente artistiche,
sia per ragioni estetiche: taglio di capelli insolito (a caschetto),
abbigliamento trendy, atteggiamento ammiccante sul palco, senso dello
humor e sfacciataggine nel corso delle interviste, tutto questo contribuì
a edificare il mito dei Beatles e a lanciarli in cima a tutte le classifiche
di vendita, oscurando personalità del calibro di Elvis Presley.
L’invasione britannica (così venne definita all’epoca
e così è passata alla Storia) vide, in parallelo all’ascesa
dei Beatles, anche quella di altre band. I Rolling Stones,
che la stampa volle ostinatamente vedere come antagonisti ai Fab Four
ma che in realtà seguirono un loro personale -e sofferto- percorso
artistico, furono abili nel fondere il rock’n’roll, il blues
e una sensibilità tutta europea per la melodia. E, per primi,
ebbero il coraggio di toccare argomenti che avevano ben poco a che vedere
con il divertimento: insoddisfazione, rabbia, incertezza, nichilismo,
paura. La loro musica si basava su riff (o fraseggi) di chitarra secchi
e diretti, le loro “cattive abitudini” contribuirono a dare
un’immagine da “maledetti” che li portò al
successo. Tra gli altri gruppi di grande importanza dello stesso periodo
vanno doverosamente citati gli Who, che diedero voce
al movimento giovanile dei Mods e che, per primi, abbinarono all’esecuzione
delle canzoni (in moltissimi casi dei veri capolavori che contenevano
i primi germi di hard rock) un’incontrollata, esplosiva violenza
sul palco che li portava a frantumare gli strumenti, con un rito primitivo
e brutale che mandava in visibilio le folle.
Tra il 1964 ed il 1966 la British Invasion dominò le classifiche
inglesi ed americane, in seguito la situazione trovò un punto
di equilibrio.
Nel resto dell’Europa, invece, artisti come Johnny Hallyday
in Francia o Adriano Celentano in Italia, ebbero ampi
riscontri che, tuttavia, non varcarono i confini nazionali.
LA
BRITISH INVASION IN SEI ALBUM:
The Beatles, “A Hard Day’s Night”
(Capitol, 1965)
The Rolling Stones, “Out Of Our Heads (ABKCO,
1965)
The Who, “The Who Sings My Generation”
(MCA, 1965)
The Kinks, “The Kink Kontroversy” (PRT,
1965)
The Yardbirds, “Having a Rave Up” (Epic,
1965)
The Small Faces, “The Small Faces” (Deram,
1966)
3.
POP
La parola “pop” è la contrazione di “popular”.
La musica popolare basata sulla canzone ha, come abbiamo visto nelle
pagine precedenti,
origini molto antiche. Ma il pop, per come lo conosciamo oggi, prende
forma nelle culture occidentali agli albori del XX secolo assecondando
la propensione a mettere in musica tematiche legate all’amore
ed ai sentimenti, accompagnate da commenti sonori romantici e di facile
presa. Negli anni ‘50 l’ondata rivoluzionaria del rock’n’roll
travolge ogni cosa e cambia le coordinate della musica giovanile. Ed
è proprio quando il rock comincia a perdere la sua carica (e,
per una serie di eventi drammatici, anche molti dei suoi esponenti)
che un nuovo pop fa la sua comparsa. È un genere sicuramente
meno eversivo, ma attuale nei contenuti e nelle modalità esecutive.
Incorpora elementi della tradizione musicale più e meno recenti,
ma si rivolge al pubblico facendo leva sulla leggerezza, sull’eleganza,
sulla semplicità di ascolto. Il pop non nasce dal sudore (come
il rock) ma dalla raffinatezza di pensiero. Non si basa sui concerti
ma sull’attività in sala d’incisione, sulla pulizia
del suono, sull’abilità di musicisti ed arrangiatori nel
confezionare canzoni perfettamente evigate e definite.
Per questa ragione si avvicinano all’area pop compositori d’alta
classe come Burt Bacharach, che scrive capolavori da
tre minuti di durata l’uno come “The Look of Love”,
“Walk On By”, “A House Is Not a Home”, “I
Just Don’t Know What to Do With Myself”, “The Road
To San José”. Canzoni “evergreen”, cioè
intramontabili, dall’impatto immediato, orecchiabili e memorabili,
apparentemente elementari ma che nascondono complessità compositive
non indifferenti, arricchite da elementi di jazz, di musica sud-americana
e, in epoche più recenti, vicine all’hip hop e al soul
urbano.
Sempre negli Stati Uniti un piccolo sconvolgimento viene operato, nell’ambito
della musica pop, dai Beach Boys di Brian Wilson. Nei
loro brani splende il sole della California, echeggia la vita da spiaggia
e l’inebriante emozione del surf. Musicalmente impeccabili, le
canzoni dei Beach Boys hanno nelle voci il loro punto di forza, grazie
ad una stupefacente orchestrazione dei cori.
E, oltre alla monumentale opera dei Beatles, anche
nel repertorio di gruppi pop fondamentali come Monkees, Zombies
e Turtles ci sono pietre miliari della musica leggera che,
a distanza di decenni, non perdono in freschezza e in vitalità.
IL
POP IN SEI ALBUM:
Burt Bacharach, “The Look Of Love: The Burt Bacharach
Collection” (Rhino, 1998)
The Zombies, “The zombies (Featuring She’s
Not There)” (Parrot, 1964)
The Beach Boys, “Pet Sounds” (Capitol,
1966)
The Beatles, “Revolver” (Capitol, 1966)
The Monkees, “The Monkees” (Rhino, 1966)
The Turtles, “Happy Together” (Sundazed,
1967)
4.
GARAGE & PSYCHEDELIA
La
reazione americana alla British Invasion venne identificata con la denominazione
garage, in virtù del luogo deputato alle prove dai gruppi
americani che avevano metabolizzato e stravolto la doppia lezione del
passato remoto (rock’n’roll) e prossimo (pop britannico).
Il suono garage era orgogliosamente e ostinatamente sporco, grezzo,
aggressivo e talvolta sgraziato, quasi a voler ribadire l’integrità
artistica e, quindi, a prendere le distanze dalla “bella canzoncina”
confezionata in modo ineccepibile. Dalle canzoni dei gruppi garage traspariva
(senza che, in realtà, nessuno facessi sforzi per nasconderla)
una palese inettitudine tecnica. La maggior parte delle canzoni si basava
su tre accordi, suonati con acido entusiasmo. Ma il limite prettamente
tecnico divenne il punto di forza, se non il marchio di fabbrica, del
garage rock, la garanzia che gli elementi più importanti erano
l’ispirazione e l’urgenza di esprimersi. Lo spirito garage
fu il progenitore diretto del punk, che sconvolse gli anni ’70
gettando nella disperazione fini compositori e musicisti progressive.
Il primo gruppo che incarnò lo spirito del garage furono i
Kingsmen, cinque musicisti pasticcioni di Portland (Oregon)
che arrivarono al successo riarrangiando in modo bislacco ed irresistibile
un pezzo di Richard Berry intitolato “Louie Louie”.
Ma la band che, per prima, diede notorietà e valore artistico
al garage si chiamava The Sonics.
Nello stesso periodo si muovevano, sempre sul suolo statunitense, musicisti
caratterizzati da una forte propensione a recepire influenze musicali
disparate, come il folk, la musica tradizionale indiana, il jazz, la
sperimentazione sia elettrica che elettronica (con i rudimentali strumenti
che esistevano all’epoca).
Il miscuglio di generi musicali, corroborato da un uso più
o meno smodato di droghe psicotrope e allucinogeni di sintesi (LSD),
prese il nome di psichedelia - in inglese psychedelia- e mostrò
che le strade espressive del rock erano virtualmente infinite. I pionieri
della musica psichedelica furono i Grateful Dead e i Byrds.
I primi stravolsero le regole di base del rock e trasformarono pezzi
di durata media in suite interminabili (di lunghezza superiore ai 30/40
minuti). I secondi - soprattutto nelle fasi iniziali della loro carriera-
crearono un nuovo suono elettrico, acido e tagliente, abbinato a sapienti
arrangiamenti vocali.
In un gioco inarrestabile di influenze, la psichedelia fece proseliti
nella vecchia Europa, dando slancio ed ispirazione a band come Pink
Floyd e Traffic.
Garage e psichedelia esercitano la loro influenza ancora oggi su un
numero elevato di gruppi, soprattutto in terra scandinava.
IL
GARAGE IN SEI ALBUM:
The Kingsmen, “The Kingsmen In Person”
(Sundazed, 1963)
The Sonics, “Here Are The Sonics” (Norton,
1965)
Paul Revere & the Raiders, “Just Like Us!”
(Columbia, 1966)
The Chocolate Watchband, “No Way Out” (Sundazed,
1967)
Fuzztones, “Lysergic Emanations” (Pink
Dust, 1984)
Nomads, “Sonically Speaking” (Sonet, 1991)
LA
PSICHEDELIA IN SEI ALBUM:
The Byrds,”Fifth Dimension” (Columbia,
1966)
13th Floor Elevators,”The Psychedelic Sounds
Of The 13th Floor Elevators” (Collectables, 1966)
Pink Floyd,”The Piper At The Gates Of Dawn”
(Capitol, 1967)
Jefferson Airplane,”Surrealistic Pillow”
(RCA, 1967)
The Grateful Dead,”Live/Dead” (Warner Bros,
1969)
The Dukes Of Stratosphear,”Chips From The Chocolate
Fireball” (Virgin, 1967)
5.
INDIE ROCK
ll vocabolario della lingua italiana Garzanti alla voce indipendente
dà la seguente definizione: che non dipende da altri, autonomo;
che non è soggetto a vincoli di alcun genere.
Non c’è modo migliore per descrivere l’attitudine
dei gruppi (prevalentemente, ma non solo, statunitensi) che a partire
dagli anni ’80 rivendicarono un ritorno ad uno degli aspetti basilari
del rock: esprimere uno stato d’animo attraverso parole e musica,
senza assecondare richieste o imposizioni delle etichette discografiche
né accontentare i gusti e le aspettative del pubblico.
Il fenomeno dell’indie (contrazione di “indipendent”)
rock nacque da questi presupposti. I gruppi lavoravano con
bassissimi budget, creavano delle proprie etichette attraverso le quali
promuovere e diffondere la musica, si appoggiavano sulle riviste non
ufficiali - chiamate fanzine, da “fanatic magazine”,
cioè le riviste degli appassionati -, cedevano solo per quanto
riguardava la distribuzione dei loro album, che affidavano alle cosiddette
major, ma tenendo queste ultime distanti da qualsiasi processo creativo,
decisionale o artistico.
Tutto ciò permise ai musicisti indie di esplorare nuovi territori
sonori, di scrivere testi non necessariamente (o immediatamente) decifrabili,
di usare i concerti per sperimentare nuove possibilità.
La scena indie partì dal sottobosco dell’alternative e
dell’underground rock, ma prese quasi subito le distanze da fenomeni
come il grunge (Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chains).
Indie rock è il contrario di “commercializzazione”
e anche se alcune band (come i Sonic Youth) hanno avuto
parecchia fortuna, non sono mai scese a compromessi nè hanno
tradito la loro filosofia di partenza.
Nella loro musica, così come in quella di Pixies,
Jon Spencer Blues Explosion, Pavement
o della cantautrice Ani Di Franco, fraseggi toccanti
hanno trovato posto accanto ad asperità melodiche o stranezze
indefinibili, suoni languidi hanno convissuto con rumori intollerabili,
idee perfettamente strutturare hanno passato il testimone a composizioni
frammentarie ed inconsuete.
In sostanza l’indie rock è l’espressione di una sensibilità
musicale particolare, sconcertante, priva di visceralità o potenza,
ma densa di introspezione e ricerca.
Negli anni ’90 l’indie rock si è disperso in molte
nuove direzioni, che hanno preso nomi come indie pop, dream
pop, noise-pop, lo-fi, post-rock, sadcore, emo.
Conservando lo spirito puro e intransigente del rock indipendente.
L’INDIE
ROCK IN SEI ALBUM:
Sonic Youth, “Daydream Nation” (DGC, 1988)
Pixies, “Surfer Rosa” (4AD/Elektra, 1989)
Ani Di Franco, “Ani Di Franco” (Righteous
Babe, 1989)
Pavement, “Slanted & Enchanted” (Matador,
1992)
Superchunk, “No Pocky For Kitty” (Merge,
1991)
Jon Spencer Blues Explosion, “Extra Width”
(Matador, 1993)
6.
HEAVY METAL
Chissà se Bill Haley, Elvis Presley o Gene Vincent avrebbero
mai immaginato, nei lontani anni ’50, che il “loro”
rock’n’roll si sarebbe trasformato al punto tale da diventare
l’assordante, aggressivo, dirompente genere musicale che il folle
critico musicale americano Lester Bangs chiamò Heavy
Metal?
Con questa denominazione si intende un rock tonante e selvaggio,
spesso assordante se non –in prima istanza- inascoltabile, che
ha portato alle estreme conseguenze le invenzioni dell’hard rock
coniato da band prevalentemente britanniche tra gli anni ’60 e
’70.
L’heavy metal è, per definizione, un genere poco incline
al compromesso, un commento musicale che esprime ribellione, rivolta
e sordo rancore nei confronti degli aspetti meno tollerabili e sostenibili
della società. Ma può anche prendere direzioni poco raccomandabili,
divenendo un viaggio oscuro ed allucinante negli abissi della psiche
umana, nei torbidi antri in cui si agitano le pulsioni inconfessate
dell’individuo.
Volendo tracciare il percorso che ha portato alla genesi dell’heavy
metal dobbiamo partire dal lavoro svolto negli anni ’60 da band
come Who, Cream, Kinks e Jeff Beck Group, che liberarono
in modo inedito la carica eversiva e distruttiva del rock-blues, creando
violente distorsioni sonore e fornendo ispirazione ad una nuova generazione
di gruppi come Deep Purple, Led Zeppelin e Black Sabbath.
Questi ultimi, in particolare, abbinarono ad una musica sempre più
aspra e roboante delle tematiche verbali ossessive basate sulla passione
per l’occulto, per le droghe, per la morte.
A questo punto, anche in virtù della teatralizzazione del genere
musicale, le direzioni possibili si erano moltiplicate. La lezione dei
sopra citati venne recepita da gruppi più e meno estremi, come
AC/DC, Van Halen, Judas Priest e Motorhead. Una nuova,
fondamentale evoluzione nel mondo dell’heavy metal venne operata
dagli inglesi Iron Maiden, che accellerarono i ritmi
fino a renderli frenetici e turbinosi.
Gli anni ’80 videro l’ascesa di nuove, incredibili formazioni
come i Metallica e i Sepultura, che re-inventarono
il modo di suonare la chitarra ritmica e di impostare la voce.
In anni recenti il metal ha dimostrato di essere ancora vivo e vegeto,
nonché ampiamente disponibile alla contaminazione, cioè
a ricevere suggestioni da altri mondi musicali: estremamente importanti
i risultati raggiunti da Il Nio (Latin metal), Opeth (Black
Metal Sinfonico), Children Of Bodom (Death Metal), Soulfly (Ethnic Metal),
Slipknot (Alternative Metal).
L’HEAVY
METAL IN SEI ALBUM:
Led Zeppelin, “Led Zeppelin II” (Atlantic,
1969)
Black Sabbath, “Paranoid” (Warner Bros,
1971)
Van Halen, “Van Halen” (Warner Bros, 1978)
Metallica, “And Justice For All” (Elektra,
1988)
Soulfly, “Dark Ages” (Roadrunner, 2005)
Slipknot, “9.0:Live” (Roadrunner, 2005)
I
MILLE VOLTI DEL ROCK
Le incarnazioni del rock che abbiamo esplorato sono solo alcune.
Ne esistono molte di più, che prendono il nome di Acid
Rock, Euro Rock, Frat
Rock, Math Rock, Pub
Rock, Folk Rock, Glam
Rock, Boogie Rock, Lovers
Rock, Rap Rock, Country
Rock, Album Rock, Jesus
Rock, Kraut Rock, Goth
Rock, Jazz Rock, Soft
Rock, Arena Rock, Blues
Rock, Noise Rock, Stoner,
Roots, Retro Rock, Southern
Rock, Space Rock, Alternative
Rock, Christian Rock, Progressive
Rock, Art Rock, Comedy
Rock, Aussie Rock, Celtic
Rock, ...
COVER
ILLUSTRI...
di
Alessandro Zanoni
...chi
e'
Vita
e fatti di Marco Parente
Marco
Parente nasce a Napoli nel 1969 ma vive a Firenze fin dall'inizio degli
anni '90. Il suo esordio solistico risale al 1997, quando per la collana
"Taccuini" del C.P.I esce Eppur non basta.
Un disco decisamente di ricerca, pur rimanendo nell'ambito della "canzone",
che ha riscosso numerosi consensi di critica per l'originalità
delle composizioni e degli arrangiamenti. Carmen Consoli,
affascinata dal progetto fin dall'inizio, duetta con Marco nel brano
Oio.
Il
suo nome non era tuttavia sconosciuto ai più attenti osservatori
del panorama musicale italiano. L'artista, dopo alcune militanze in
gruppi locali (Parente si era fatto notare per la collaborazione con
Andrea Chimenti ne L'albero pazzo, oltre che come membro
degli Otto'p'notri), aveva infatti a più riprese
lavorato come turnista con i C.S.I. partecipando in
veste di percussionista negli album Ko de mondo (1994) e Linea gotica
(1996).
Mentre Marco inizia a registrare il suo secondo album, decide di partecipare
al progetto L'isola di Wyatt dedicato al batterista
dei Soft Machine Robert Wyatt dal Consorzio Produttori Indipendenti.
A fianco dei La Crus interpreta Gharbzadegi e partecipa
ad una serie di date dal vivo in cui sono coinvolti membri dei CSI,
Manuel Agnelli degli Afterhours, Cristina Donà, Enrico Greppi
e Finaz della Bandabardò.
Nel settembre 1998, il primo disco viene ristampato in un edizione speciale,
con una nuova copertina e due brani in più: Oggi si ride
e Gharbzadegi.
Il
secondo album viene pubblicato nel novembre 2000, si intitola Testa,
dì cuore. Undici episodi come undici storie di passione,
disagio, sentimenti oscuri, intriganti malinconie in un album di Rock
da camera che somma intuito e ragione. In
Testa, dì cuore la presenza femminile è quella di Cristina
Donà, magnifica in Senza voltarsi, a testimoniare un
rapporto di reciproca stima che ha visto a sua volta Parente come ospite
nell'album Nidodella cantautrice.
Nel
1998 inizia la sua collaborazione con la City Lights Italia,
presentando in anteprima Testa, dì cuore alla Stazione Leopolda
di Firenze. Nel
2000 partecipa al tour PullMan My Daisy con Ferlinghetti,
Ed Sanders, Anne Waldaman, John Giorno, Alejandro Jodorowsky e molti
altri poeti e musicisti esponenti della "beat generation".
Sempre
con City Lights Italia, nel 2001 partecipa al Festival Fuck
Art, Let's Dance accompagnando i readings di L. Ferlinghetti
(a Firenze in Piazza della Signoria e a Genova, Teatro della Corte)
e nel maggio 2001, all'interno della rassegna "Delle cose nascoste
fin dalla fondazione del mondo" (Fiesole / Firenze; gennaio / luglio
2001) presenta in anteprima il primo studio realizzato per l'allestimento
dello spettacolo Paradiso, Inferno, Piano Terra all'Anfiteatro romano
di Fiesole, in occasione del quale City Lights Italia pubblica la raccolta
degli ultimi suoi testi Work in progress/Work in Regress.
Nell'inverno
del 2001 apre insieme a Paolo Benvegnù alcuni concerti di Afterhours.
Sempre in questo periodo inizia la collaborazione con Manuel
Agnelli. Ospite del Premio Ciampi 2001 si
esibisce in una vibrante performance assieme allo stesso Manuel Agnelli
e ancora una volta, a fianco di Paolo Benvegnù.
Nel
febbraio del 2002 Patty Pravo interpreta e inserisce
nel suo album Radiostationuna sua canzone (Farfalla Pensante),
tutto grazie e sotto la supervisione di Manuel Agnelli.
Il
27 settembre 2002 è stato pubblicato su etichetta Mescal (distribuzione
Sony) il nuovo disco di Marco Parente prodotto da Manuel Agnelli, intitolato
Trasparente e preceduto dal singolo Lamiarivoluzione,
distribuito nei negozi il 21 giugno 2002.
Il
4 ottobre 2002 ha ricevuto il Premio Grinzane Cavour per
la poesia e i testi musicali insieme a Manuel Agnelli e Cristina Donà
con i quali si è esibito durante la serata in una performance
acustica indimenticabile al Teatro Politeama di Saluzzo (CN).
A
novembre, in concomitanza con la pubblicazione da parte della City Lights
di Firenze del Libro trasparente, è uscito anche nei negozi il
secondo singolo intitolato Davvero trasparente. Sempre
a novembre prendono vita, grazie alla regia di Graziano Staino, due
video Adam ha salvato Molly e Davvero trasparente.
Il
30 Maggio 2003 è la data di uscita del terzo singolo estratto
dall'album Trasparente intitolato Pillole Buone. Questo
brano, della durata di circa 15 minuti, è nato amalgamando e
remixando 1 minuto circa per gni pezzo incluso nell'album Trasparente,
di e da un'idea di Lorenzo Brusci. Il cds contiene, oltre alla traccia
Pillole Buone che ne da il nome, tre brani, sempre remixati: Proiettili
Buoni (b-side inclusa nel primo singolo Lamiarivoluzione e
remixata da Lorenzo Brusci), W il mondo (remixato sempre
da Lorenzo Brusci) e Anima gemella (remixata da Stefano
Facchielli degli Almamegretta).
Mercoledì
21 maggio 2003, Marco Parente con i suoi musicisti e la Millenium
Bugs' Orchestra ha pennellato di magia una serata all'interno
dell'ormai mitica Stazione Leopolda a Firenze. La
performance è stata registrata e fa parte di un album/progetto
live uscito il 16 gennaio 2004, intitolato L'attuale jungla
e preceduto dalla pubblicazione del singolo Inseguimento geniale
(01-12-2003). E poi ...
NEVE
RIDENS 1 (SETTEMBRE 2005)
NEVE RIDENS 2 (FEBBRAIO 2006)
"Sapevo
che sarebbe stato l'anno della neve, me lo sentivo... e me la son goduta
tantissimo: sono stato a far pallate a S. Spirito per due ore"...
www.falsomovimento.it
www.marcoparente.it
(dal
31 marzo 2006)
SIAMO
CHIMICA CHE CAMMINA
Intervista a Marco Parente
Marco
Parente è uno dei compositori più sorprendenti ed innovativi
del panorama nazionale.
Il suo approccio al formato canzone non si adegua mai ad una scrittura
standard, ma si spinge nei territori –a volte impervi- della ricerca.
Ognuno dei suoi brani è come un album in miniatura. Abbiamo parlato
con Marco del suo lavoro e del modo di affrontarlo.
Quando
hai scoperto la musica?
“Distinguiamo
tra scoperta consapevole e inconsapevole. Sin da bambino ho avuto una
predisposizione
per tutto ciò che era riconducibile al suono. In casa la musica
c’è sempre stata, soprattutto per
volere di mia madre, grande appassionata di rock’n’roll
e fan di Elvis Presley. Mio padre invece, artista e pittore, mi fece
respirare l’arte. Tornando alla musica, ricordo che il primo regalo
musicale che ricevemmo io e mio ratello furono due musicassette. Una
di Elvis Presley e una degli Intillimani. Il rock e la musica etnica,
due aspetti che ritrovo nella musica che faccio, basata su un approccio
che mette in comunicazione ed in contrasto elementi meravigliosi ed
apparentemente inconciliabili. E’ la scintilla di schizofrenia
che mi porto ancora appresso.”
Che
cos’è per te la canzone?
“Da
un punto di vista teorico è riuscire a condensare nel minor tempo
possibile un flusso emotivo. A volte si tratta di argomenti ben definiti,
altre volte, invece, si tratta di libere sensazioni, non riconducibili
ad un pensiero preciso e definito. La canzone consta di alcuni elementi
fondamentali, cioè melodia, parole, arrangiamento, ritmo. Ed
aggiungerei anche brevità, anche se non è detto che l’artista
debba per forza sottostare all’obbligo di fare canzoni da tre
minuti. Io amo dilatare le canzoni e farle diventare molto unghe. Ma
amo anche scrivere pezzi sintetici ed essenziali.”
Nel
comporre usi un metodo per comunicare le tue sensazioni?
“No,
un metodo fisso non c’è. Molto dipende dalle persone con
cui sto lavorando e dal tipo di
materiale di cui dispongo in un certo momento. Quando decido di condividere
i miei pezzi mi pongo nella condizione necessaria e sufficiente per
portare alla luce le mie intenzioni. Se ho di fronte un numero ristretto
di musicisti le sinergie nascono più velocemente. Avere davanti
una grande orchestra, invece, rallenta i tempi e moltiplica le difficoltà.
Tante teste, tante umanità, tante sovrastrutture...Come musicista
mi interessa condividere ciò che faccio, il lavoro che realizzo
da solo è incompleto, ha bisogno dell’incontro, dell’incastro
con l’esterno. E non intendo solo con altri musicisti, ma anche
-per fare un esempio- con il fonico. Il mio ultimo disco è il
distillato delle collaborazioni di questi ultimi anni. Il dialogo è
stato alla pari in dall’inizio. In realtà abbiamo parlato
poco e lavorato molto sin da subito, ognuno ci ha messo del suo.”
A
proposito del tuo ultimo album, come hai impostato il lavoro?
“Ho
portato in studio le canzoni che avevo scritto negli ultimi due anni
e ho lasciato che ognuno dei musicisti dicesse la sua. Ho agito con
umiltà, dando spazio alla spontaneità degli altri. Non
ho dato indicazioni a priori. Va detto che sapevo bene con chi stavo
lavorando, non era un azzardo l 100%. Ma anche durante le fasi di lavorazione
sono stato a lungo in silenzio. A volte il gruppo prendeva strade che
non convincevano completamente o che non mi convincevano affatto. Ma
non intervenivo, davo ad ogni idea il tempo di trovare la propria collocazione
oppure di uscire di scena.”
Una
specie di disciplina all’ascolto...
“Uno
sforzo che alla fine è stato ampiamente ripagato. E io ho capito
che le mie perplessità erano dovute al fatto che dovevo abituarmi
ad una strada che non conoscevo. Che la mancanza di convinzione per
alcune delle idee, da parte mia, era dovuta alla mancanza di comprensione.”
Prima
hai parlato di grandi orchestre. Cosa ricordi dell’esperienza
de “L’attuale jungla” e del lavoro con la Millenium
Bugs Orchestra?
“Prima ancora di essere un disco era un progetto, l’idea
di “classicizzare” le mie canzoni, dando loro il suono swing
della big band. C’erano tante interfacce, c’era un direttore
che prendeva le decisioni, io non mettevo bocca: la sua figura era “imponente”.
Tra i musicisti c’erano elementi del mio gruppo. Una doppia ritmica,
quindi, e in più i fiati. L’ambizione del progetto e i
tempi molto ristretti hanno reso tutto molto faticoso. A volte nessuno
capiva più dove si stava andando, ma alla fine il risultato mi
è piaciuto. Ci sono state numerose tensioni, anche piacevoli.
Ne sono venuto fuori affaticato e desideroso di fare. Magari di fare
qualcosa di diverso, anche solo per reazione...”
In
questi anni hai mai avuto momenti di crisi creativa o di crisi con il
mondo esterno?
“Crisi
creativa no, mai. Con il mondo esterno...beh’, a volte non ci
siamo trovati. A volte, ma non sempre. Scrivere canzoni è un’ottima
arma. E’ uno sfogo ed è anche una difesa. Quando uno viene
aggredito dalle contraddizioni e dalle assurdità della vita,
il tornare dentro di sè, nella propria intimità di pensiero
o domestica, permette di tirare fuori ciò che fa stare male,
di non tenere tutto dentro.”
Nelle
tue canzoni non c’è mai un singolo umore. E’ come
se tu riuscissi a racchiudere in un solo
brano tutti gli umori di un’intera giornata...
“Si,
è vero. Come minimo gli umori di un’intera giornata. Ogni
giorno passiamo attraverso tanti stati d’animo. Dipende da come
ci svegliamo, da come ci muoviamo. Siamo chimica che cammina, e questa
chimica si muove dentro di noi. E’ dura da decifrare ma nonostante
la complessità riverso tutto questo modo di essere e di vivere
nel mio lavoro.”
Brano
audio digitalizzato da Maurizio Principato:
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