Una
storia della musica in breve - seconda parte
Il nostro viaggio nella musica prosegue, nello spazio e nel tempo.
Il punto di partenza di questo secondo percorso è il
Rinascimento, periodo artisticamente fertile e vitale,
nel quale nasce l'opera. Sotto lo slancio rinascimentale le esecuzioni
musicali drammatiche si avvicinano progressivamente ai gusti e alle
esigenze popolari, dando forma un po' alla volta a quella che, dopo
secoli di trasformazioni, diventerà la musica leggera. La
forma concerto, inoltre, acquista struttura e forme precise, rivelandosi
come uno dei principali veicoli per la diffusione e la comprensione
della musica.
A cavallo tra il XVII e il XIX secolo nascono compositori ed esecutori
influenti, innovativi o audaci, che con il loro inestinguibile talento
cambieranno per sempre il corso della musica: Vivaldi, Bach,
Mozart, Beethoven e Schubert sono quelli che prederemo in esame.
“Viaggio nella musica” è prima di tutto un
viaggio nel tempo: giunti ai primi decenni del XIX secolo salteremo
agli anni sessanta (del XX secolo), per fare conoscenza con band e star
che hanno cambiato il modo di fare musica dal vivo.
1.
Il trionfo dell'intervallo
Il '500 segna storicamente la fine del Medioevo e l'avvento del Rinascimento.
Da un punto di vista artistico questa rinascita coincide naturalmente
con la necessità di fruire di nuove forme espressive, che rivelino
fedelmente l'anima dell'epoca. Il primo passo viene fatto riesumando
o imitando le antiche commedie classiche e attualizzandone sia la struttura
che i contenuti. Dopo secoli culturalmente bui ed oscuri, l'intera società
(anche le frange meno abbienti) sente il desiderio di provare emozioni
grazie alla musica ed alle rappresentazioni teatrali. Per questa ragione
si assiste sia ad una progressiva semplificazione dei temi e degli argomenti,
che all'ingresso di nuovi elementi di intrattenimento che si innestano
all’interno di realtà artistiche esistenti. Drammi e rappresentazioni
sacre, infatti, vengono interrotte da intervalli che
prendono il nome di "intermedi" e che hanno
lo scopo di distrarre per qualche minuto gli spettatori. E accade ciò
che nessuno poteva immaginare: gli intermedi riscuotono un successo
tale che, spettacolo dopo spettacolo, vedono aumentare la loro durata
e si arricchiscono di elementi scenografici. Questi momenti musicali
assicurano al pubblico un divertimento inedito, fino
a caratterizzarsi come uno spettacolo nello spettacolo e, di lì
a poco, diventare la ragione di interesse principale.
2.
Tutti all'Opera
Ed è con l'affermazione dei sopra citati intermedi che prende
avvio quella che, in seguito, viene identificata come opera
e che nasce dal lavoro "a staffetta" di numerose
scuole attive in Italia.
Nel periodo che va dalla fine del '500 ai primi decenni del '600 l'opera
fiorentina concentra la propria attenzione sulla parola,
dandole un grande risalto sonoro e rendendola maggiormente fruibile
(in virtù di una scelta di vocaboli via via più comuni
e, di conseguenza, comprensibili ad un pubblico più vasto). L'opera
romana si caratterizza, invece, per l'inserimento di elementi
comici, che consentono l'emancipazione da forme retoriche
seriose e piuttosto sterili. La nascente opera veneziana
prende il meglio del lavoro svolto dalle scuole fiorentina e romana,
per innalzarlo ai massimi livelli di qualità: le linee armoniche
acquistano una straordinaria espressività, le orchestrazioni
vengono pervase da affascinanti coloriture, le interpretazioni -vocali
e strumentali- si arricchiscono di singolari sviluppi psicologici e
passionali. L'opera napoletana pone maggiore attenzione
sugli aspetti sentimentali dei contenuti verbali, sostenuti da commenti
musicali ricercati, ora commoventi ora vigorosi.
In parallelo all'evoluzione repentina dell'opera è da registrare
la nascita di altre forme musicali, dal successo (e dal seguito) nettamente
inferiore. La prima -più austera e priva di elementi di contorno-
è l'oratorio. Naturale evoluzione della lauda
(o laude), consiste in una forma di spettacolo sacro in cui mancano
scene ed azione. Il centro della rappresentazione è costituito
dalla narrazione cantata di un fatto biblico, sostenuta da uno scarno
commento musicale. Altra forma musicale, meno noiosa ma ugualmente limitata
da un punto di vista artistico, è la cantata,
sacra o profana, che nasce per deliziare quegli ambienti salottieri
frequentati da una audience superficialotta, che ama più le facili
emozioni estetizzanti che non i reali contenuti.
3.
Campioni del mondo!
L’aspetto fondamentale dell’evoluzione musicale del ‘600
è che l’opera perde progressivamente le caratteristiche
di prodotto destinato all’entertainment dell’aristocrazia,
avvicinandosi alle esigenze semplici e genuine del popolo.
Nel XVII secolo l’opera italiana ha una posizione di egemonia
indiscussa: gli artisti nostrani sono richiestissimi ovunque, basta
essere (o dire di essere) italiani e tutte le porte si spalancano, dalle
corti alle sale da concerto. Le ragioni sono tre. In primo luogo l’opera
italiana (fiorentina, romana, veneziana o napoletana che sia) aderisce
perfettamente al proprio tempo e si propone non più come festa
cortigiana ma come vero e proprio spettacolo destinato ad un pubblico,
ovvero ad un gruppo di persone che non vive a corte ma in una realtà
sociale aperta (borgo, paese o città). In secondo luogo l’opera
italiana accresce di pari passo l’importanza della parola cantata
e del relativo accompagnamento musicale, segnando una crescita artistica
che nessun altro paese riesce a mettere in atto. Infine l’opera
italiana suscita sempre sentimenti antitetici, da una parte grande entusiasmo
e dall’altra grande invidia, che la pongono al centro dell’attenzione,
con casi di imitazione mal riuscita e conseguente, ulteriore trionfo
del modello originale.
In Germania in questo periodo, anche grazie all’intervento diretto
di Lutero (al quale preme che il maggior numero di persone abbia accesso
al mondo della musica), abbiamo la fioritura del Lied, forma cantata
che prende spunto dall’antico lavoro dei Minnesänger. In
Francia la canzone polifonica scivola verso forme sempre più
drammatiche, arricchendo spettacoli in cui l’elemento di maggior
interesse è tuttavia la danza.
4.
In concerto
Fino alla metà del ‘600 il concerto non
era altro che un momento di esecuzione musicale in cui un gruppo di
musicisti (composto da cantanti e strumentisti) si esibiva senza una
precisa definizione strutturale. È dal 1680 che cominciano a
delinearsi con chiarezza i tratti del concerto barocco,
ad opera di compositori come Stradella, Corelli e Torelli.
Proprio grazie al lavoro di quest’ultimo si raggiunge una maggiore
precisione della forma e dello stile del concerto, schematizzabile in
tre movimenti: allegro, adagio, allegro. Il salto di qualità
determinante avviene ad opera di uno delle figure più importanti
della storia della musica, Antonio Vivaldi.
5.
Antonio Vivaldi, il prete rosso
Ci sono composizioni che quasi tutti riconoscono sin dalle prime battute.
La primavera, tratta dalle Quattro stagioni,
è una di queste. Il suo autore è uno dei violinisti e
compositori italiani più importanti di sempre: Antonio
Vivaldi. Nato a Venezia il 4 marzo 1678, durante l’infanzia
è allievo del padre Giovan Battista e del maestro di cappella
Legrenzi. Riceve gli ordini minori fra il 1693 e il 1696, e viene ordinato
prete nel 1703. In virtù della sua folta capigliatura fulva verrà
in seguito soprannominato prete rosso (e non, ovviamente, per ragioni
squisitamente politiche). Rinuncerà molto presto a celebrare
messa per una forma di asma che gli procura, stando alle sue parole,
“ristrettezza di petto”. I problemi di salute non gli impediscono
di insegnare: tra il 1703 e il 1740 è maestro di violino e composizione,
maestro di coro e maestro di concerti presso il Seminario musicale dell’Ospedale
della Pietà, una delle quattro scuole veneziane di musica frequentate
da ragazze orfane o abbandonate. Il temperamento virile e deciso, supportato
da un carattere misterioso e magnetico, rende il bell’Antonio
una specie di rockstar agli occhi delle sue numerose allieve che, spesso,
lo adescano (con esiti favorevoli per entrambi). Ma la professione dell’insegnamento,
per quanto esercitata con grande serietà, è marginale
rispetto ad altri due aspetti: l’attività di virtuoso del
violino (che lo porta a suonare anche fuori da Venezia in moltissime
occasioni) e quella di compositore di melodrammi. L’ulteriore,
e non trascurabile, abilità di Vivaldi sta nel saper essere un
buon imprenditore di se stesso, permettendogli di trarre notevoli profitti
dal mestiere di esecutore e di autore. Muore a Vienna il 28 luglio del
1741. In seguito il musicista e compositore veneziano viene ingiustamente
dimenticato e tornerà ad essere riconsiderato solo dopo il 1945,
quando la ri-pubblicazione dei suoi lavori consente di comprenderne
la grandezza e soprattutto l’influenza su tutta la scena musicale
settecentesca.
Alla base dell’opera vivaldiana c’è una profonda
esigenza di chiarezza, ordine e semplicità che
non diventano mai fini a se stesse ma si mettono al servizio di uno
stile aperto, in grado di assecondare umori, pulsioni
e tensioni. Tra i suoi lavori più importanti vanno citati “L’estro
armonico”, “La stravaganza”, “Il cimento dell’armonia
e dell’invenzione”.
6.
Johann Sebastian Bach, un tipo casa e chiesa
Considerato mentre era in vita un organista virtuoso ed insuperabile,
è solo ad un secolo dalla sua morte che viene riscoperto –come
compositore ineffabile- grazie ad un’esecuzione della “Passione
secondo Matteo” di Felix Mendelssohn.
Stiamo parlando di Johann Sebastian Bach, strumentista
e compositore nato nella cittadina tedesca di Eisenach il 21 marzo 1685.
Nel corso dell’infanzia la sua naturale passione per la musica
viene assecondata dal padre Ambrosius che lo avvicina al violino e alla
viola. In seguito alla morte dei genitori impara a suonare organo e
clavicembalo sotto la guida del fratello Johann Cristoph. L’allievo
supera in poco tempo il maestro: Johann Sebastian nel 1703 è
già un rinomato e richiestissimo organista. Nel frattempo studia
con fervore l’opera dei grandi compositori italiani (come Corelli,
Legrenzi, Albinoni, Frescobaldi e soprattutto Vivaldi) passando intere
notti sul materiale musicale reperito presso la nutrita biblioteca di
Luneburg, alla flebile luce della candela e compromettendo per sempre
la propria vista.
Nel 1705 è organista ad Arnstadt. Un bel giorno viene a sapere
che a Lubecca si esibirà il suo idolo D. Bextehude.
Senza pensarci due volte Johann Sebastian lascia lo strumento e, lontano
dal preoccuparsi di chiedere permessi o ferie, si incammina: d’altra
parte sono solo 400 chilometri, che percorre a piedi. Al suo ritorno
–parecchi giorni dopo la partenza- viene licenziato. Non è,
quest’ultimo, un fatto eccezionale: spesso il compositore, in
virtù di un carattere non proprio accomodante, entra in conflitto
con i suoi datori di lavoro e rassegna le dimissioni, quando non è
malamente allontanato. Tra un nuovo incarico e l’altro, si ritrova
a suonare alla corte di Sassonia-Weimar, dove viene particolarmente
apprezzato e dove ha modo di comporre nuove partiture, nonché
di approfondire lo studio degli amatissimi compositori italiani del
passato.
Nonostante gli impegni familiari (si sposa due volte e ha, in tutto,
una ventina di figli), Johann Sebastian trova il tempo di lavorare e
comporre una serie di capolavori che si distinguono non tanto per caratteristiche
rivoluzionarie o di innovazione, quanto per l’essere una chiusura
perfetta e inattaccabile della musica sino a quel momento concepita:
la grandezza di Bach sta nel trasporre le forme polifoniche nella sfera
di movimenti della moderna armonia strumentale. Nell’opera di
Johann Sebastian Bach domina l’elemento spirituale e questo lo
mette a margine delle mode del periodo (il barocco –che all’epoca
è il genere che va per la maggiore- ha natura ben più
frivola) e il fatto che egli sia anche poco incline alla mondanità
non lo aiuta in alcun modo. Poco male, perché lo stare in disparte
a lavorare gli permette di dare forma ad una serie di composizioni (opere,
ouvertures, concerti, sonate e suite) d’indiscutibile rigore compositivo
e dalla rara perfezione formale, ricche di geniali soluzioni e invenzioni.
Nel 1749 le condizioni di salute di Johann Sebastian Bach declinano
velocemente. Muore il 28 luglio 1750 –oramai completamente cieco-
per un attacco cardiaco, lasciando incompiuta una delle sue opere più
grandi, l’ “Arte della fuga”.
Per avvicinarsi alla figura di Bach è suggerito
l’ascolto delle seguenti opere: “Concerti Brandeburghesi”,
“Il clavicembalo ben temperato”, “Variazioni Goldberg”
e la sopra citata “Arte della fuga”.
7.
Wolfgang Amadeus Mozart, l’eterno enfant
prodige
Salisburgo, primavera del 1764. Il violinista Leopold Mozart
rientra a casa in compagnia di un amico, dopo essere stato
in chiesa. Trova il piccolo figlio Wolfgang Amadeus
–che è nato il 27 gennaio 1756 e ha appena sei anni- intento
a riempire di pallini e stanghette alcuni spartiti. Gli chiede cosa
stia facendo e il bambino risponde: “Sto componendo un concerto
per clavicembalo. Ho quasi finito il primo tempo”. Le serissime
parole vengono accolte da una bonaria risata, dopodiché nonostante
Wolfgang si opponga (“Vi prego, non ho finito, lasciatemi lavorare
ancora!”) suo padre dà un’occhiata ai fogli spiegazzati
e pieni di macchie: in quel momento si rende conto che sulla carta c’è
l’opera di un genio. Smette di ridere e decide di dedicare la
sua vita a coltivare, e a far conoscere, il talento del figlio. Mozart
inizia con regolarità i propri studi a Salisburgo (ma, va detto,
suona violino e clavicembalo già da quando aveva quattro anni)
e, grazie all’intraprendenza del genitore, inizia a girare in
lungo e in largo l’Europa a bordo di scomode, umide e traballanti
carrozze lanciate su strade dissestate. Dopo essersi dedicato con impegno
alla scrittura di complicate sinfonie, tra il 1773 e il 1776 il giovane
Mozart si interessa alla composizione di Divertimenti e Serenate, dal
carattere vivace e dinamico, che gli permettono di sviluppare soluzioni
musicali sorprendenti. Queste opere vengono eseguite principalmente
in contesti mondani, come le feste o i banchetti.
Esaurito l’interesse per queste forme compositive, Mozart si dedica
alla musica sacra. Viaggia frequentemente alla volta di Parigi, dove
il suo talento non riesce ad affermarsi. Dopo la morte della madre Anna
Maria decide di tornare a Salisburgo. La sua natura spiccatamente
indipendente e la riluttanza alle imposizioni lo portano a svincolarsi
dal giogo del suo principale committente, l’arcivescovo Colloredo
(che in una malaugurata occasione lo aveva preso addirittura a calci),
per lavorare in completa autonomia: è forse il primo caso di
concreta e completa emancipazione nella Storia della musica. Trasferitosi
a Vienna, riceve un prestigioso incarico dall’imperatore in persona.
Tra il 1781 e il 1786 Wolfgang Amadeus Mozart è uno stimato pianista
e compositore. Si dedica alla scrittura di concerti, quartetti e quintetti,
in un crescendo di pubblica ammirazione. La sua opera diviene sempre
più caratterizzata da elementi in armonioso contrasto, una fusione
di ingenua naturalezza e raffinata ricercatezza.
Si avvicina anche al teatro e, grazie alla collaborazione con il librettista
italiano Lorenzo Da Ponte, produce la trilogia italiana
costituita da "Le nozze di Figaro", "Don Giovanni"
e "Così fan tutte".
Purtroppo l’indipendenza artistica si ritorce contro Mozart, che
inizia a versare in drammatiche ristrettezze economiche. Ai problemi
di natura finanziaria si aggiungono le condizioni di salute via via
più gravi e le difficoltà esistenziali (come la morte
del padre). Mozart trascorre gli ultimi anni della propria vita nella
nera miseria, vessato da umiliazioni intollerabili. Muore all’una
di notte del 5 dicembre 1791, lasciando incompiuto l’immenso “Requiem”.
Tra le sue opere, per iniziare a comprenderne la grandezza suggeriamo
l’ascolto dei “Concerti per violino K216, K218,
K219”, del “Concerto per clarinetto e orchestra
KV622”, del “Requiem K626”,
de “Le nozze di Figaro”.
8.
Ludvwig van Beethoven, il ribelle
Nato a Bonn il 16 dicembre 1770, Ludwig van Beethoven
non è –volendo azzardare un paragone con Mozart- un fanciullo
prodigio, anche se suo padre vorrebbe tanto che lo fosse, se non altro
per poterne sfruttare il talento e grazie a questo vivere di rendita.
Il periodo storico in cui vive il giovane Ludwig è gravido di
grandi cambiamenti: dopo le profonde trasformazioni portate dalla Rivoluzione
Francese e gli sconvolgimenti dovuti alle guerre napoleoniche, anche
la figura del compositore assume connotati differenti. Non è
più l’artista distaccato ed isolato, esclusivamente concentrato
sulla propria opera (come Bach) e neanche il genio che alterna momenti
di estasi artistica a fasi di pura mondanità (come Händel
o Mozart). È piuttosto e prima di tutto un uomo, che poggia su
chiari ideali e su una lucida coscienza morale. Lo Sturm and Drang e
il conseguente romanticismo influenzano ed esaltano l’ispirazione
di Beethoven, il cui temperamento ben si sposa con queste correnti di
pensiero (ed azione). All’età di 12 anni egli lascia Bonn
per trasferirsi a Vienna, dove si fa notare per un approccio inaudito
alle esecuzioni per pianoforte: assecondando il proprio carattere impulsivo,
indomito e focoso, si produce in vere e proprie aggressioni allo strumento,
alternate a momenti di rara ed inarrivabile delicatezza. Si tratta di
una reale proiezione in musica della personalità incontenibile
di un genio che, grazie al proprio talento, lascia senza parole le audience
più disparate.
La volontà combattiva, abilmente tradotta in musica, rivoluziona
i canoni tradizionali della musica ottocentesca, intensificando ogni
forma espressiva, moltiplicando gli strumenti in orchestra ed, al contempo,
inasprendo le complessità esecutive degli strumenti solisti,
in un crescendo di tensione drammatica.
Beethoven è il primo artista moderno sia per
l’imponenza delle sue composizioni, sia per il senso di responsabilità
con cui si rapporta con ognuna delle proprie opere. E va sottolineata
anche l’attitudine a cercare di superare costantemente i propri
limiti, per arrivare là dove nessuno era giunto prima. Gli elementi
basilari dell’arte beethoveniana sono il dolore del vivere
e l’energia impiegata per affrontarlo, trovando
le opportune, sofferte soluzioni.
L’emancipazione che costa cara a Mozart diventa, nel caso di Beethoven,
un fondamentale strumento di indipendenza che lo porta a ridefinire
la condizione sociale del musicista, che avrà –di qui in
poi- un proprio ruolo autonomo, senza essere al soldo dei potenti. Proprio
per questa ragione la musica, da questo momento, uscirà dagli
asfittici ambienti aristocratici per essere divulgata nel nascente ceto
borghese: infatti per quanto complessa e non immediata, la musica di
Beethoven riscuote grande successo di pubblico e di critica.
Afflitto dalla sordità, Beethoven compare in pubblico per l’ultima
volta il 7 maggio 1824, durante l’esecuzione della “Nona
sinfonia”. Muore stremato dalla gotta, dai reumatismi e dalla
cirrosi epatica il 27 marzo 1827.
Le opere da ascoltare per comprenderne il genio sono “Le
nove sinfonie”, i “Concerti per pianoforte
1-5”, le “Sonate per pianoforte Patetica
e Chiaro di luna”, i “Quartetti per archi
op. 130 e 133”.
9.
Franz Schubert, il romantico
La
componente più malinconica e soave del romanticismo trova in
Franz Schubert (nato a Lichtental, un sobborgo di Vienna,
il 31 gennaio 1797) un grande ed autorevole esponente. Nell’opera
del compositore, che in Beethoven riconoscerà un maestro incommensurabile,
non si trovano elementi
di aggressività, di potenza o di tensione. Sono presenti, invece,
sentimenti gentili e delicati, pensieri d’amore
casti, nostalgie struggenti e timide fantasticherie. Ciò che
caratterizza ogni composizione di Schubert è la grazia,
il senso di attesa e sospensione, l’importanza
della pausa. È una comunicazione intima in chiave musicale, non
priva di un ripiegamento su se stesso da parte dell’artista, che
nella musica trova uno sfogo espressivo ed una via di fuga dalla realtà.
Traducendo i poemi in musica, i Lied schubertiani danno dolce levità
alle parole e le enfatizzano allo stesso tempo. Nel corso del tempo
il generale tono sentimentale che pervade l’opera schubertiana
si converte ad un’aspra amarezza di fondo, che
trasforma la tristezza in ossessivi pensieri di morte.
Il compositore muore prematuramente a causa di una malattia venerea
-contratta durante il soggiorno presso la residenza estiva del conte
Esterházy in Cecoslovacchia- il 19 settembre 1828 a Vienna, a
poco più di un anno dalla dipartita di Ludwig van Beethoven.
Tra le opere più importanti di Schubert vanno ricordate “Fantasia
per pianoforte a quattro mani”, “L'incompiuta”, “Ave
Maria”, “La morte e la fanciulla”, ”Viaggio
d'inverno”.
Sperimentazione
Trasgressione Improvvisazione
Invenzione
Le
rockband che hanno rivoluzionato il modo di fare musica dal vivo
Il
concerto rock è il momento nel quale un gruppo propone
le proprie canzoni ad un pubblico di proporzioni più o meno vaste
(variabile da 1 persona a 1.000.000 di persone, come
nel caso del concerto gratuito tenuto dai Rolling Stones a Rio de Janeiro,
nel febbraio 2006).
Nel migliore dei casi l'esibizione dal vivo permette a una band di far
rivivere il proprio repertorio, assecondando gli umori, le tensioni
e le gioie del momento, ma soprattutto catturando l'energia -positiva
o negativa- che arriva dalla audience e canalizzandola all'interno della
musica.
La storia del rock ci ha fatto conoscere band che -in sede di concerto-
non fanno altro che replicare le composizioni già
esistenti su disco e, all'opposto, band che sul palco arricchiscono
con improvvisazioni, inserimenti e sorprese i pezzi noti o che, addirittura,
usano il palco per creare materiale totalmente inedito.
Tutte le pratiche sopra elencate sono rispettabili nonchè necessarie:
saranno le ascoltatrici e gli ascoltatori ad indirizzarsi verso ciò
che ritengono maggiormente soddisfacente o esaltante.
Di seguito abbiamo preso in esame alcune band che hanno contribuito
all'evoluzione strutturale del concerto rock. L'elenco
ovviamente non è esaustivo ma fa luce su un mondo di gruppi,
autori, interpreti e fantasisti che, a più di mezzo secolo dalla
nascita del rock'n'roll, non accenna a diminuire né ad arrestare
la propria vitalità.
1.
The Doors
Nel 1967 sul mercato americano arriva l'album di esordio dei Doors,
una formazione californiana assortita in modo quanto meno bizzarro:
uno studente di cinema con uno speciale talento per le body performance
(Jim Morrison), un tastierista con ambizioni sinfoniche
(Ray Manzarek), un chitarrista flamenco (Robbie
Krieger), un batterista jazz (John Densmore).
Tanto i Beatles erano in sintonia, quasi in simbiosi
tra di loro, tanto i Doors erano distanti -per temperamento, attitudine
e ambizioni- l'uno dall'altro. Questo li portò sempre a suonare
l'uno contro l'altro, anche se -per una sorta di miracolo
artistico- nel senso più produttivo e utile del termine.
Era come se ognuno di loro fosse posizionato su un diverso punto cardinale
e si muovesse in opposta direzione, espandendo le proprie possibilità
espressive e, di conseguenza, quelle dell'intero gruppo.
I concerti della band, infatti, avevano una forza che si propagava in
modo inaudito ed incontenibile, investendo e galvanizzando la
audience. Morrison, in particolare, trasformò la figura
del front-man in una sorta di sciamano moderno che si prefiggeva il
compito di superare ogni limite sino a quel momento conosciuto, spalancando
le porte della percezione di chi ne seguiva gli insegnamenti e le indicazioni.
I live dei Doors divennero, a partire dalla costituzione della band
(avvenuta nel 1965), dei work in progress in bilico tra sacro e profano,
dove -come minimo- succedeva l'inaspettato.
L'unicità dei Doors stava nel mantenere un equilibrio tra eccesso
e normalità, tra pensiero e azione, tra illuminazione e perversione,
tra sperimentazione e immediatezza: da una parte trovavano posto eccessi
e follie (anche nella vita privata), dall'altra c'era il loro brillante
repertorio di canzoni – a volte inconsuete, come “The
End”, grande esempio di improvvisazione e trasgressione
verbale, o come l'immenso testamento artistico “Riders
On The Storm”- che avevano presa immediata sul pubblico.
Ognuno degli album di questa band vendette almeno un milione di copie.
Le cose andarono bene sino al 1969, anno nel quale, durante un malaugurato
concerto al Miami's Dinner Key Auditorium, un Morrison completamente
ubriaco perse il controllo e finì per essere incriminato con
gravi accuse, non ultima quella di aver simulato atti osceni.
La carriera dei Doors terminò due anni dopo ma il lascito della
band fu (ed è) enorme.
Un numero sterminato di gruppi, dagli Stooges ai Cult ai Red Hot Chili
Peppers, ha assimilato e attualizzato la lezione di Jim Morrison e dei
Doors.
2.
The Who
Tutto cominciò con una chitarra lanciata inavvertitamente contro
il basso soffitto di un locale londinese, durante un'esibizione dal
vivo: lo strumento a sei corde era del giovane Pete Townshend
che, al termine del concerto, dovette preoccuparsi di riattaccare il
manico alla cassa. Questo gesto assoutamente non premeditato attirò
l'attenzione di un giornalista che invitò Townshend a rifarlo
ancora, assicurando in cambio una recensione sulla prima pagina del
quotidiano per cui lavorava. La chitarra venne frantumata nel concerto
successivo ma la recensione non arrivò. Poco male, perchè
il gesto -aggressivo, estremo e liberatorio- contribuì ad alimentare
la fama di questa band emergente che si chiamava The Who,
un quartetto formato da Townshend (che scriveva la quasi totalità
dei brani), Roger Daltrey alla voce, John Entwistle
al basso e il folle Keith Moon alla batteria.
Nati come gruppo mod, gli Who aumentarono album dopo album (e soprattutto
concerto dopo concerto) la carica esplosiva della loro musica. Le esibizioni
dal vivo diventavano il luogo ideale nel quale liberare energie virtualmente
inesauribili. La guida emotiva e spirituale del gruppo era Townshend,
ma il propulsore era Moon, che detestava le canzoni sdolcinate o “lente”,
e finiva per infiammare anche i pezzi più tranquilli. Spesso
le performance degli Who terminavano con la distruzione della chitarra
e della batteria, in un crescendo quasi orgiastico che trasformava le
canzoni in suite e le suite in apocalisse. Gli Who furono la prima,
vera band di hard rock della Storia e seppero aprire molte nuove strade
espressive, grazie alla creazione di opere rock come
“Tommy” (1969), il progetto “Lifehouse”
(che vide la luce sotto forma di album, con il titolo “Who'
s Next”, nel 1971) e “Quadrophenia”
(1973). Per avere un'idea della potenza live degli Who è caldamente
suggerito l'ascolto dell'album “Live At Leeds”
(1971), recentemente ripubblicato con l'aggiunta di molti inediti eccellenti,
inspiegabilmente esclusi nell'edizione originale.
3.
Frank Zappa & The Mothers of Invention
L'intera carriera del compositore e polistrumentista Frank Zappa è
segnata da una serie di eventi assurdi, edificanti, esilaranti e rivelatori.
Il primo gruppo nel quale -nel 1958- un giovanissimo Zappa muove i primi
passi musicali si chiama The Blackouts. La denominazione
prende spunto da un fatto accaduto ai musicisti in formazione: avevano
mangiato delle mentine talmente forti da perdere i sensi (da qui il
nome).
Nei primi anni '60 Zappa si esibisce in TV suonando il telaio
di una bicicletta. Si tratta di una performance sperimentale
che, per quanto seriosa, suscita interesse e divertimento. Nel frattempo
scrive anche complicate partiture per orchestra che commenteranno le
scene salienti di film a tematiche spinte (ma visivamente casti).
Nel 1965 forma un gruppo musicale che prende il nome di Mothers
Of Inventions. Questa band porterà sui palchi una ventata
di novità, dando vita a performance che miscelano teatro dadaista,
rock'n'roll, musica barocca, boogie woogie, jazz (dallo swing al free),
blues e avanguardia. Insomma, un guazzabuglio di stili uniti dal massimo
comun denominatore Zappa, che a partire dall'esperienza con le Mothers
impara quanto sia importante continuare a rielaborare, giorno dopo giorno,
le composizioni e, soprattutto, realizza che un brano non finisce mai,
cioè non è mai “chiuso” ma può continuare
a essere plasmato in base a molte differenti variabili.
Nel corso della propria carriera Zappa scopre:
- che la stessa canzone suonata da musicisti diversi prende connotati
differenti (in base al carattere, alla predisposizione e al talento
di chi suona);
- che l'esecuzione live di un pezzo dipende anche dal contesto: se avviene
in uno stadio affollato da migliaia di persone avrà un certo
sapore, se invece ha luogo in uno scantinato adibito a locale davanti
ad un pubblico sparuto il risultato sarà diverso (più
raccolto, intimo, caldo o –perché no- sonnacchioso);
- che una band, guidata in modo opportuno da un leader capace e attento,
diventa una macchina in grado di suonare qualsiasi cosa, dalle sciocche
canzoncine ai pezzi più complicati.
Zappa credeva nei concerti e suonò dal vivo per mesi e mesi ogni
anno, sino a quando il fisico glielo permise.
Era solito registrate tutti i concerti, per selezionare il materiale
migliore e pubblicarlo su disco.
In alcuni casi si divertì a creare dei concerti inesistenti,
prendendo -ad esempio- una parte di batteria registrata nel concerto
X, una parte di basso registrata nel concerto Y e un a-solo di chitarra
registrato nel concerto Z. Una pratica che può sembrare astrusa
(alla quale lui diede il nome di xenocronia) ma che
produsse risultati stupefacenti. Zappa dimostrò che solo il vero
musicista è in grado di sostenere un concerto ricco di complessità.
E difese strenuamente l'importanza di fare concerti per tenere
in vita lo spirito, il significato,
l'essenza del rock.
Ascolti suggeriti per entrare nello sconfinato universo musicale zappiano
live: “Sheik Yerbouti”, “You
Can't Do That On Stage Anymore vol. 1”, “The
Best Band You Never Heard In Your Life”.
Highlights:
Pink Floyd, Grateful Dead, Led Zeppelin,
Ramones, Peter Gabriel, Phish, Slipknot
Piccoli accenni a grandi band che, in modi diverso, hanno
ridefinito i parametri del concerto rock
Pink
Floyd: grandi sperimentatori da un punto di vista visivo,
hanno arricchito le loro performance di effetti speciali coerenti con
la musica e non fini a se stessi.
Grateful
Dead: hanno re-inventato i contenuti del tipico concerto
pop-rock, tenendo un piede nella scarpa della tradizione (country, blues,
rock) e l'altro nella scarpa dell'innovazione e della ricerca (tra sperimentazione,
psichedelia e improvvisazione).
Led
Zeppelin: veri padri dell'heavy metal, non si sono accontentati
di questo. Per ragioni personali hanno infarcito le loro canzoni di
significati e simboli magici, esoterici o diabolici, contribuendo ad
aumentare il fascino della band e trascinando ai loro concerti folle
sconfinate, in precedenza mai messe insieme da nessun altro gruppo.
Ramones:
con loro inizia la rivoluzione punk. Non sapevano suonare ma volevano
fare musica a tutti i costi. I loro primi concerti avevano una scaletta
di 20 pezzi e duravano, in tutto, 17 minuti (!). Ma la loro ostinazione
li ha premiati, trasformandoli in una cult band che, ancora oggi, ha
milioni di estimatori in tutto il mondo.
Peter
Gabriel: ha sempre amato unire suono e immagine. Già
ai tempi dei Genesis indossava costumi diversi a seconda dei brani eseguiti.
Come solista ha ulteriormente perfezionato con idee geniali ed originalissime
questa propensione per la messa in scena. Ancora oggi, con quasi 40
anni di carriera sulle spalle, riesce ancora a sorprendere.
Phish:
eredi dei Grateful Dead, hanno saputo trasformare ogni concerto in una
festa dove non mancavano mai i momenti di sorprendente improvvisazione.
Molti dei loro fan sapevano che ogni concerto era diverso dal precedente
e dal successivo e, quindi, valeva la pena di essere visto. Conclusione:
moltissime persone seguivano i loro tour dall'inizio alla fine (per
la gioia degli organizzatori, che vendevano tonnellate di biglietti).
Gli
Slipknot: suonano indossando tute da lavoro (talvolta
con una discreta cravatta) e maschere inquietanti che fanno pensare
al pazzo con la motosega di “Non aprite quella porta”. I
loro concerti sono un possente assalto sonoro che può essere
classificato come alternative metal. Le loro identità segrete
alimentano curiosità ed interesse del pubblico. Il rifiuto di
ogni compromesso commerciale è stato premiato dal grande pubblico,
che li ha portati ai primi posti delle classifiche americane.
Professione
musicista: interviste ai professionisti
L'oggetto
di questo secondo viaggio nella musica è l'esecuzione dal vivo,
ovvero il concerto.
Un momento nel quale i brani musicali incisi in studio prendono vita,
acquistando nuova energia e portandola direttamente, anzi fisicamente
al cuore del pubblico. Il processo creativo che porta alla genesi di
una canzone o di un'opera, e alla sua esecuzione, è complesso
e articolato, può essere compreso in modo autentico solo entrando
a contatto con chi lo fa quotidianamente. Per questo abbiamo incontrato
tre artisti che ogni giorno (e, in alcuni casi, ogni notte) lavorano
con la musica, accomunati da un approccio serio, sincero e appassionato.
La
cantante, pianista ed autrice Pia
Tuccitto, il front-man della Bandabardò Enrico
"Erriquez" Greppi e il maestro Leonardo
Rossi. Ognuno di loro ci ha raccontato cosa significa
scegliere una professione legata alla musica, quali onori e quali oneri
comporta, che emozione dà suonare e cantare dal vivo. E non sono
mancati dei gustosi aneddoti che fanno parte della vita di ogni musicista.
“Suonare
davanti alla gente, anche fosse una sola persona, è una cosa
che riempie il cuore”
Intervista a Pia Tuccitto
Cantante e pianista, Pia è un’autrice dal temperamento
non comune che ha saputo creare un proprio, originalissimo modo di scrivere
canzoni, pur restando nel solco della tradizione melodica italiana.
Forse per questa ragione ha avuto l’onore di scrivere brani per
star come Patti Pravo e Vasco Rossi, oltre a sviluppare una carriera
come solista.
Pia,
quando e come hai scoperto la musica?
“La
musica è geneticamente presente nella mia famiglia, da sempre.
Mio nonno era un musicista, suonava i fiati (flicorno e flauto in particolare)
nella banda del paese siciliano in cui era nato e viveva. Essere uno
degli elementi della banda paesana era un grande prestigio, perché
voleva dire partecipare a tutti i principali eventi, di carattere religioso
e non. Per quanto riguarda i miei parenti toscani, una delle mie zie
suonava il pianoforte. Io mi sono avvicinata alla musica studiando proprio
questo strumento, avevo all’incirca sei anni. Ha sempre giocato
a mio favore la fortuna di avere un buon orecchio musicale, che mi consentiva
di capire e scrivere velocemente la musica.”
La
tua formazione scolastica è esclusivamente musicale?
“No, sono diplomata in ragioneria. Ma l’amore per la musica
è stato più forte di ogni altra cosa.”
Chi
sono stati gli idoli musicali della tua infanzia e della tua adolescenza?
“Da piccina ero una fan sfegatata di Renato Zero. Beh’,
proprio piccina piccina non ero: frequentavo le scuole medie inferiori
e restai sconvolta da questo personaggio così dirompente, innovativo,
sorprendente, eccessivo, diversissimo dal Renato di oggi. Cominciai
a rifare le sue canzoni al pianoforte, interpretandole a modo mio. Da
questa pratica ho imparato moltissimo. Un’altra voce che ho amato
è stata quella di Loredana Bertè, che pur essendo vicina
alla tradizione canora italiana aveva un’indole e un’attitudine
funk. Sono sempre stata una grande appassionata di musica italiana anche
in virtù dei testi, che spesso sanno trasmettere grandi emozioni.
I cantanti e soprattutto i cantautori del nostro paese mi hanno insegnato
e fatto amare i valori più importanti della vita.”
Quanto
è difficile, per te, scrivere i testi delle canzoni?
“Guarda, io difficoltà non ne ho mai avute. Pensa che a
scuola prendevo sempre 4 con i miei temi d’italiano! Non perché
non sapessi scrivere, ma piuttosto perché non ero prolissa, andavo
subito al dunque. Ma questa naturale propensione alla sintesi mi ha
aiutato tanto quando si è trattato di fare canzoni. Io parlo
della mia vita e lo faccio con naturalezza, riuscendo a dare sempre
qualcosa a chi ascolta. Credo che scrivere i testi delle canzoni sia,
e debba essere, semplice come parlare con un’altra persona. Tanti
autori si complicano la vita con metafore o chissà cosa. Io no,
le parole delle canzoni mi vengono di getto.”
Parlando
di canzone italiana, è stato detto tutto o c’è ancora
qualcosa da raccontare?
“È’ il punto di vista che fa la differenza. Il modo
di pensare di ogni persona, la sua prospettiva, le sue sensazioni. In
effetti a volte mi chiedo: ho davvero qualcosa da dire che ancora non
sia stato detto? Non sono altro che un puntino nell’universo!
Però sono un puntino che ha una testa e una voce. Io non ho mai
fatto piano-bar e neanche cover, ho coltivato la mia espressività
per sviluppare il mio personale talento. Credo che ogni persona dotata
di sensibilità artistica debba lavorare in questo modo, senza
perdere di vista la propria strada. Bisogna riuscire a conservare la
purezza, ascoltarsi ed ascoltare tanta, tantissima musica, senza chiudersi
in un unico genere.”
Scrivi
le tue canzoni sempre nello stesso posto oppure no?
“No, non ho un luogo ideale per comporre. Lo faccio ovunque. Quando
mi viene l’ispirazione non la faccio scappare. A volte mi vengono
in mente delle melodie mentre sono al volante: mi fermo e le scrivo,
così le catturo. Poi ci lavorerò meglio in un secondo
momento. Le idee vengono quando meno te lo aspetti.”
Ti
piace suonare dal vivo?
“Sì, è un’emozione grandissima. Perché
scrivere canzoni è bello, ma suonare davanti alla gente, anche
fosse una sola persona, è una cosa che riempie il cuore. Perché
esci allo scoperto e ti dai agli altri.”
Quali
sono i tuoi concerti che ricordi con maggior piacere?
“Non potrò mai dimenticare il mio primissimo concerto di
tanti, tanti anni fa. E resta nella mia memoria anche il concerto che
feci prima di Vasco a S.Siro, davanti a 64.000 persone che, nonostante
fossero impazienti di ascoltare il loro idolo, mi apprezzarono. I concerti
più belli sono quelli in cui senti che la gente partecipa, che
canta con te, è una cosa che non si può descrivere.”
Parliamo
delle tue collaborazioni “illustri”.
“La più importante è sicuramente quella con Vasco
Rossi. Tutto iniziò nel 1993, quando partecipai a Castrocaro
e venni notata da Gaetano degli Stadio. Lui mi portò nel team
di Vasco. Le cose naturalmente si sono mosse con grande lentezza, se
pensi che per fare il mio primo disco ci ho messo 12 anni! Comunque,
nel 2000 Vasco mi propose di fare qualcosa con lui, che all’epoca
aveva in ballo un progetto con Patti Pravo. Finii a lavorare per lei
e le scrissi sette canzoni.”
Che
tipo è Patti Pravo?
“È una persona molto diretta, non ha mezze misure. Se le
stai antipatica è finita. Per fortuna noi ci siamo intese subito.
Per capire com’ero, appena ci presentarono volle subito provare
a cantare con me. Il nostro rapporto di lavoro è stato molto
intenso, quattro mesi in cui eravamo quotidianamente gomito a gomito.”
E
Vasco?
“Con lui c’è un rapporto speciale che non potrei
spiegare a parole neanche se lo volessi. È’ un legame artistico
e affettivo, una grande e profonda amicizia. Gli sono grata perché
ha creduto nel mio talento e ha lottato molto per riuscire a far nascere
il mio primo album da solista.”
Quali
sono stati i concerti più belli che hai visto
negli ultimi anni?
“Dunque…i Red Hot Chili Peppers, a Bologna due anni fa.
Il loro cantante, Anthony Kiedis, è un vero animale da palco,
mi sento molto simile a lui. I loro pezzi sono bellissimi, ricchi di
stupende melodie e di sensualità. Per quanto riguarda gli italiani,
beh’…tutti i concerti di Vasco Rossi, perché è
in assoluto un grande. E il concerto di Renato Zero che vidi l’anno
scorso.”
“Io
amo gli artisti che dal vivo danno tutto, anche l’anima”
Intervista a Erriquez (Bandabardò)
Con una serrata attività live e una discografia di qualità,
la Bandabardò è diventata nel corso degli anni un’importante
realtà musicale nel panorama nazionale. Abbiamo avuto il piacere
di incontrare il loro front-man e portavoce Erriquez che, in una pausa
tra un impegno e l’altro, ci ha raccontato il presente della band
e ha anticipato i piani per l’immediato futuro.
Erriquez,
come vanno le cose?
“È un periodo meraviglioso. Sono appena tornato dalla Polonia,
dove abbiamo suonato. Mentre eravamo lassù siamo stati in visita
ai campi di sterminio di Cracovia, ed è stata un’emozione
molto forte. Musicalmente siamo molto prolifici, ogni giorno nasce una
nuova canzone. Questo è sempre un buon segno, vuol dire che l’intesa
è ancora molto forte e che abbiamo ancora molta strada da fare
come gruppo. Stiamo iniziando a lavorare alla definizione al tour italiano
dell’estate. Nelle prossime settimane faremo parecchie date in
Germania e in Francia.”
Con
una quantità incalcolabile di concerti sulle spalle, ti emoziona
ancora partire per un tour?
“Sì, l’inizio di ogni tournée è un
momento impagabile, che si debba stare in giro una settimana o sei mesi.
Perché senti l’emozione prima ancora di cominciare e sai
che cercherai di vivere ogni cosa con la massima intensità. Noi
della Bandabardò siamo tutti piuttosto viscerali e, lo dico onestamente,
ancora puri. Quando siamo sul palco ci vedi senza finzioni o atteggiamenti
predefiniti. Non ci piace fingere, quelli che vedi e che senti dal vivo
siamo noi.”
Torniamo
al vostro viaggio in Polonia, vuoi raccontarmelo?
“Tutto è iniziato con la partenza in treno da Carpi. Ci
attendeva un viaggio di ben 24 ore! Quando devi stare così tanto
su un vagone non fai più caso –faccio per dire- ad un’ora
di ritardo. Eravamo una vera comitiva, con noi c’erano persone
note, come lo scrittore Carlo Lucarelli, e tanti ragazzi delle scuole
che con la loro curiosità, la loro sete di conoscenza, il loro
interesse per la Storia e per la scoperta della verità…
mi hanno davvero emozionato. Avevano lo spirito giusto e, d’altra
parte, venire in Polonia era stata una loro scelta. Quando siamo arrivati
a Cracovia, in una gelida mattina d’inverno in cui la temperatura
era a -18°, e quando abbiamo visitato Birkenau…abbiamo avuto
un’idea di cosa volesse dire viverci ai tempi dei campi di concentramento.
E noi eravamo vestiti come esquimesi, non certo con quattro stracci
leggeri come i prigionieri dell’epoca. Intorno a noi c’era
il nulla. Sulla testa un cielo azzurro terso. E il bianco tutto intorno,
i casermoni della morte…È’ stato davvero pesante.
Alla sera i ragazzi hanno cantato e ballato, per liberarsi da quel senso
di schiacciante oppressione che tutti avevamo addosso. Hanno celebrato
la vita. Siamo qui per la vita, non per la morte. Al nostro ritorno
eravamo mesti e silenziosi, ma interiormente più ricchi e consapevoli.”
Parliamo
dei vostri nuovi pezzi. Tre, mi dicevi?
“Sì, avrebbero dovuto essere due, ma –come ti dicevo-
ne sono nati tre. Li inseriremo nella nostra (scusa la parola) compilation
che uscirà nei prossimi mesi. Ci sarà anche una cover.
Forse avremmo potuto lavorare prima sulle nuove canzoni, ma siamo sempre
stati asini come a scuola: ci riduciamo a studiare il giorno prima dell’esame!
E poi le idee non possono nascere a comando!”
In
tutti questi anni di intensa attività live, com’è
cambiato il vostro rapporto con il palco?
“Che ci divertiamo sempre di più! Sin dal primo concerto
c’è sempre stato un bellissimo rapporto con la gente che
veniva a sentirci. Anche se in qualche caso, soprattutto agli inizi,
nelle zone in cui la gente ancora non ci conosceva era un po’
difficile scaldare l’atmosfera. La cosa più difficile è
scontrarsi con un rifiuto preconcetto dovuto alla chiusura mentale.
Ma abbiamo imparato ad imporci, a dire: noi siamo così, prendere
o lasciare. E a farlo, naturalmente, con le nostre canzoni.”
Tu,
come spettatore, cosa vuoi o cosa ti aspetti da un concerto?
“Io amo gli artisti che dal vivo danno tutto, anche l’anima.
Che non sono schiavi della vanità o della routine. Che mettono
il cuore in ogni concerto e sono in grado di stabilire un rapporto di
scambio energetico con il pubblico. Suonando, cantando o anche parlando
tra un pezzo e l’altro. C’è anche chi non ha nessun
bisogno di parlare e, quindi, non lo fa. Francesco De Gregori, ad esempio,
canta ma non parla, e i suoi concerti sono sempre comunque molto intensi.
Io detesto chi incita la gente a saltare o a battere le mani: il concerto
è una festa e ognuno ha diritto di viverla come meglio crede.”
È’
faticoso vivere on the road?
“La Bandabardò sta insieme da sette anni e posso dire che,
facendo tantissimi concerti, i problemi ci sono stati. Non intendo tra
di noi. I rapporti sentimentali o di amicizia rischiano di deteriorarsi
quando si mettono di mezzo le lunghe distanze. In più c’è
l’aspetto della notorietà, che è pesantissimo da
gestire, soprattutto quando arriva e non te lo aspettavi. Suonare dal
vivo, alla fine, è la cosa più semplice e più bella
che un musicista possa fare. La gente che viene a sentire i concerti
ti manda il proprio amore. È’ un’immensa gratificazione,
anche se non bisogna correre il rischio di gettarsi alla ricerca spasmodica
di un pubblico sempre più grande. Gli artisti devono rimanere
tali e non diventare delle star, trincerandosi dietro assurdi privilegi
o facendosi contornare da guardie del corpo.”
Secondo
te la gente che viene ai concerti si rende conto della fatica che c’è
dietro?
“Qualcuno, ma tutto sommato sono ancora pochi. Mi capita ancora
di sentire la domanda: a parte l’hobby della musica che lavoro
fai? E il duro lavoro non è solo quello dei musicisti, ma soprattutto
quello dei tecnici che, dopo il concerto, smontano tutto e partono verso
il prossimo luogo in cui suoneremo, senza dormire o quasi, mentre noi
chiacchieriamo con la gente o andiamo a riposare.”
C’è
un concerto al quale hai assistito che ricordi con piacere?
“Una ‘Notte della Taranta’ in Salento. Ero letteralmente
sconvolto, mi hanno dovuto portare a letto, sembravo davvero un tarantolato.
Ho apprezzato molto Caparezza dal vivo, un grande artista, appassionato
e sincero. I suoi testi sono buffi e intelligentissimi. Capa è
grande. Anche i Subsonica mi sono piaciuti molto, ma li preferivo quando
c’erano meno megaschermi e più sudore.”
Che
suggerimento daresti a chi vuole intraprendere la professione di musicista?
“Di affrontarla davvero come una professione e non come una bellissima
passione. Mettersi sotto, imparare, incontrare e parlare con altri musicisti,
partecipare alle conferenze, erudirsi sugli aspetti burocratici, dalla
siae all’enpals. Spesso incontro persone che mi dicono: ma secondo
te posso mollare il mio lavoro e fare musica a tempo pieno? Non c’è
una risposta che valga per tutti. La discografia non attraversa un momento
favorevole, ma per fortuna sono nate tante piccole realtà che
supportano le band emergenti. La musica, ripeto, è una professione
e va affrontata con serietà.”
“Non
esiste musica bella o brutta, tutto dipende da chi la suona e da come
la suona”
Intervista a Leonardo Rossi
La vita del compositore, musicista e direttore Leonardo Rossi è
totalmente improntata alla musica.
Impegnato su molti fronti -dal jazz orchestrale alle colonne sonore-
il maestro Rossi ci ha parlato del suo lavoro, di come lo affronta e
di quali incognite nasconde.
Leonardo,
hai voglia di riassumere il tuo curriculum in poche parole?
“Ci provo. Vengo da una famiglia musicale. I miei genitori erano
musicisti. Anche mia sorella suonava il pianoforte. Io ho cominciato
all’età di 5 anni. Successivamente ho suonato a livello
dilettantistico nella banda del paese. Poi ci sono stati i vari gruppetti,
dal liscio al rock, un po’ di tutto, fino a quando non ho deciso
di trasformare la passione in professione. Ho studiato al conservatorio
di Firenze per 7 anni, diplomandomi in orchestrazione di fiati. Mi sono
trasferito a Milano, dove mi sono diplomato in direzione d’orchestra
nel 1991. Successivamente ho lavorato con gruppi di musica jazz e classica.
Dirigo la Brizzi Big Band, fondata da me. Insegno musica. Mi occupo
anche di musica da film.”
Scrivi
colonne sonore?
“Sì. Recentemente ho composto la musica per un film di
Charlie Chaplin. Ma ho anche trascritto brani altrui, scoprendo la bellezza
e la complessità di partiture che nascono per accompagnare le
immagini e finiscono per restare in secondo piano, pur essendo di grande
qualità.”
Esiste
un metodo per comporre una buona colonna sonora?
“Ne esistono tanti, ogni compositore sceglie quello che gli è
più congeniale. Va detto che un buon commento sonoro è,
appunto, un commento, non deve avere eccessivo spessore, altrimenti
lo spettatore verrà distratto. Il compositore ha il dovere di
mettersi al servizio del film, ascoltando e interpretando i desideri
del regista. A volte capita che la musica sia di qualità e il
film no: in questo caso la colonna sonora nobiliterà la pellicola.”
Chi
sono i tuoi autori preferiti?
“Sicuramente Ennio Morricone. Negli Stati uniti ci sono moltissimi
grandi autori, come Danny Elfman, homas Newman, Alan Menken, John Williams.”
Parliamo
del tuo lavoro come direttore d’orchestra.
“È’, come hai detto tu, un lavoro, a 360°, molto
impegnativo. Anche perché non mi limito: ho un approccio alla
musica libero da vincoli. Non esiste musica bella o brutta, tutto dipende
da chi la suona e da come la suona. Herbert von Karajan diceva che la
lunghezza delle singole note può modificare la natura di un brano
e credo che sia davvero così. Io amo lavorare in contesti musicali
differenti e cerco di far capire ai musicisti che ogni genere ha bisogno
di uno spirito diverso. Chi è abituato a lavorare con la musica
classica storce il naso se il pezzo che deve eseguire non è scritto
su uno spartito. Allo stesso modo i musicisti pop o rock non hanno familiarità
con le partiture. Ma bisogna lavorare su questo, cambiare mentalità,
superare le proprie abitudini.”
Quali
sono le difficoltà nel lavorare con una big band?
“Tutto dipende dalla levatura dei musicisti e dalla loro conoscenza
dell’idioma jazzistico, che è una forma musicale particolare,
nata dalla spontaneità popolare. Suonare jazz presuppone un’attitudine
speciale e un’elasticità mentale non comune. Due diversi
brani swing, anche se hanno lo stesso tempo, non verranno mai suonati
in modo identico. Per riuscire a capire questo concetto basilare chi
desidera suonare in una big band deve ascoltare tantissimo jazz di questo
tipo, comprendere le motivazioni degli autori, leggere i libri giusti.
Insomma deve immergersi in questo mondo, per aver un approccio coscienzioso
e professionale.”
Dove
ascolti la musica?
“Prevalentemente in macchina, perché a casa non ho molto
tempo per farlo. Ascolto di tutto, da Carla ley a Jaco Pastorius a Phil
Collins, dal pop al rock. Soprattutto ascolto i suggerimenti degli amici.
Se mi propongono di sentire un album lo faccio subito, assecondando
la mia naturale curiosità per tutto ciò che musica. Ultimamente,
grazie ai canali satellitari, ho fatto molte nuove e interessanti scoperte.”
Quanto
è importante il suono nella musica?
“Moltissimo, è un parametro fondamentale, quasi quanto
la musica stessa. Infatti per la buona riuscita di un album o di un
concerto è assolutamente fondamentale il lavoro dei tecnici del
suono e dei fonici. La cattiva qualità del suono, oggi, è
inaccettabile.”
Qual
è, per te, la maggior soddisfazione nel suonare dal vivo?
“Percepire il feeling, l’energia della gente, la sua attenzione
e il suo trasporto.”
Quali
progetti hai in cantiere in questo momento?
“Un cd di brani scritti ed arrangiati da me, eseguiti dalla Brizzi
Big Band. Stiamo anche lavorando all’organizzazione di quattro
serate dedicate al jazz, alle quali parteciperanno artisti del panorama
jazzistico internazionale.”
Un’ultima
domanda: com’è la scena musicale casentinese?
“Questa è una valle chiusa e se uno vuole fare il musicista
girovago fa un po’ fatica, ma tante cose sono cambiate in meglio
ultimamente. Ad esempio un tempo se volevi studiare dovevi andare in
altre città. Oggi, con il fatto che molti musicisti casentinesi
sono tornati a casa portando con loro tutto quello che vevano imparato
(come è successo a me), le possibilità di imparare restando
in zona sono aumentate.”
C'era
una volta... La Brizzi Big Band |
|
Ne
è passata di acqua sotto i ponti da quel lontano 1992, quando
Fosco Fei fondò la Brizzi Big Band: un gruppo di dilettanti
animati da un insospettabile ottimismo e tanta voglia di fare e ascoltare
musica. Quando nel 1995 ne assunsi la direzione, la
band si allargò ulteriormente, coinvolgendo progressivamente
tutti i migliori solisti della provincia. Un percorso in salita per
raggiungere standard sempre più elevati e creare un gruppo che
fosse prima di tutto di amici e poi di musicisti.
Oggi
la Brizzi
Big Band è una realtà ormai consolidata. Oltre all'impegno
di ognuno di noi, fonte di grande soddisfazione personale, dobbiamo
ringraziare tutti coloro i quali ci hanno permesso di rendere vero il
nostro grande sogno.
Nell'occasione
di un percorso ormai decennale della Big
Band, un grazie particolare va al pubblico che sempre numeroso e
appassionato ci ha seguiti, i tanti amici che ci hanno dato fiducia
e che possiamo soltanto ricompensare con emozioni semplici ma universali:
quelle della nostra musica.
Leonardo
Rossi
Brano
audio digitalizzato da Maurizio Principato:
sintesi in 7 minuti di centinaia
di anni di musica (dal canto
gregoriano al DJ set)
Foto
di Alessandro Ferrini