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Aprile 2006 > Terza tappa di "Viaggio
nella Musica" per parlare insieme della DIFFUSIONE
DELLA MUSICA e per...
...tentare
la fortuna sperando di vincere un biglietto omaggio con l'accesso al
backstage per il CONCERTO DI LIGABUE l'8
giugno a Bologna
Siamo
giunti alla terza ed ultima tappa del nostro tour attraverso la Storia
della musica, che ci ha portato -attraverso il tempo e lo spazio-
dall'antica Grecia di Omero al buio medioevo europeo, dal Rinascimento
all'Illuminismo e, infine, al Romanticismo.
È’ da qui che ripartiamo oggi, dall'Ottocento,
secolo in cui si condensa una fitta serie di cambiamenti sociali e politici,
i quali produrranno sviluppi e ripercussioni che si estenderanno sino
ai giorni nostri e, in alcuni casi, non hanno ancora esaurito la loro
spinta riformatrice.
Cambiamenti che influenzano, innervano o travolgono in primis gli spiriti
più sensibili, ovvero artisti, musicisti e compositori. Vi forniremo,
come sempre, una serie di informazioni che non vogliono essere esaustive
(sarebbe pretenzioso e impossibile) ma stimolanti.
“Viaggio nella Musica” vi indica la porta attraverso
la quale si accede alle informazioni. Sta a voi -se lo desiderate-
fare il passo successivo, varcare la soglia ed entrare nel vivo di uno
o più momenti storici, musicali, umani.
Nel percorso che, incontro dopo incontro, abbiamo affrontato con voi,
quello che abbiamo voluto fare, attraverso il racconto analitico delle
correnti e delle figure principali dell'Universo Musica (che oggi ci
porterà dal Romanticismo al simbolismo, e dall'espressionismo
all'avanguardia, evidenziando la nascita e l'affermazione di generi
nuovi rispetto alla classica, come il jazz e il rock), è stato
dimostrare che la musica, per quanto intangibile, immateriale e quindi
fisicamente inafferrabile, è materia viva e per questa ragione
vive dentro ogni essere umano, sin dalla preistoria.
E il destino della musica è quello di continuare a fungere da
veicolo di sogni, bisogni ed emozioni.
Cambiano le modalità di composizione ed esecuzione, cambiano
gli strumenti ed i luoghi di fruizione, cambiano i mercati e i committenti,
cambia anche la musica e, proprio per questa sua capacità di
anticipare o condensare l'evoluzione dello spirito umano, esisterà
per sempre.
Ma
cosa succederà in futuro?
Il mercato della musica soccomberà a causa dello scambio
gratuito (e inarrestabile) di musica on line? Nasceranno nuovi modi
di commercializzare la musica?
La musica tornerà ad essere un fenomeno prevalentemente “live”?
Dischi, CD e DVD diventeranno oggetti d'antiquariato per raffinati collezionisti?
Il
dibattito è aperto. E abbiamo avuto modo di parlarne l'8 Aprile
con discografici, editori ed esperti, infatti in questa terza e ultima
puntata del nostro Viaggio nella Musica incontriamo cinque professionisti
che hanno deciso di dedicare la loro vita alla musica. Chi da artista,
come
Giorgio Albiani,
chi con la professione di giornalista e responsabile
di testate come Roberto Rossi Gandolfi
e Ezio Guaitamacchi,
chi in qualità di addetto ai lavori e ideatore di nuove modalità
di diffusione, fruizione, commercializzazione della musica, come
Paolo Maiorino,
Fabrizio Rioda, Marco
Conforti.
Anche Elena
Rapisardi, project manager,
ha dato il suo contributo al dibattito parlando dei costi della
musica, un argomento assai scottante quanto interessante.
Ma
prima di passare alla terza parte della nostra storia della musica in
breve, presentiamo i vincitori dei cinque biglietti
omaggio + backstage per il concerto del LIGA!
Complimenti
a "quelli tra palco e realtà"...
ACCIAI
GINO -
lavoratore
BIGIARINI
ANDREA
- studente Liceo Classico
Galilei
GALASTRI
COSTANZA -
studente Liceo Scientifico Galilei
NORCINI
LORENZO -
studente Liceo Scientifico Galilei
ROMANO
LEONARDO - studente Liceo Scientifico Galilei
Se
lo sono proprio meritato!
Infatti
la sorte ha premiato Gino, Andrea, Costanza, Lorenzo e Leonardo che
hanno partecipato a tutti e tre gli incontri. Il loro viaggio nella
musica non finisce quindi qui, ma prosegue alla volta di Bologna:
"Il giorno dei giorni" sarà l'8 giugno !!
Per
sapere come è andata e vedere le immagini del concerto di Bologna
vai alla seconda pagina successiva
UNA
STORIA DELLA MUSICA IN BREVE
Terza
Parte
1.
Ricominciare dal cuore: Robert Schumann
Il
romanticismo gentile, soffuso, tormentato e velatamente inconsapevole
di Franz Schubert trova un contraltare roboante in Robert Schumann
(1810-1856), una figura particolare che alla mansione/funzione consueta
dell'artista (cioè compositore ed esecutore/interprete dei brani)
abbina quella di giornalista e critico musicale, sarcastico e intransigente.
Nel suo bersaglio finiscono le menti conservatrici, poco inclini ad
accettare sviluppi sorprendenti ed evoluzioni inaspettate in ambito
musicale. In realtà quella del compositore/opinionista Schumann
era una personalità tripla: il guerriero indomito,
l'intellettuale malinconico e il musicista
raffinato. La somma delle tre dà vita ad un'opera che comprende,
ad esempio, dei Lieder consistenti in brevi pezzi pianistici che realizzano
compiutamente un nuovo ideale della forma espressiva romantica basato
sull'intuizione e sulla fantasia: è il dominio del sentimento,
della passione, del cuore. È poesia pura, quella di Schumann,
pienamente calata nello spirito di un'epoca e, quindi, tesa ad emanciparsi
da schemi precostituiti. Ma, proprio perchè stimolata dal fuoco
interiore e dall'impulsività, è calda e travolgente nell'incipit
e, per contro, fredda e algida negli svolgimenti (un esempio di ciò
è il Phantasiestück op.12).
2.
Mendelssohn, vita da star
È
struggente leggere le biografie di quegli artisti che, nel corso della
loro esistenza, produssero capolavori sommi a dispetto di un'esistenza
fatta di stenti, vessazioni, dolori, tormenti.
Per contro, la breve vita (1809-1847) di Felix Mendelssohn-Bartoldy
non fu segnata dai drammi. Tutt'altro. Fu pianista acclamato e, in seguito,
direttore d'orchestra osannato dal pubblico e dalla critica. Viaggiò
molto, attraversando l'Europa e facendo tesoro di innumerevoli esperienze
artistiche, culturali ed umane. Ottenne fama, ricchezza, fortuna e ampi
riconoscimenti. Lo spirito romantico era centrale nell'opera di Mendelssohn,
ma in un'accezione antitetica rispetto a quella di Schumann, in quanto
caratterizzato da elementi profondamente differenti: serenità,
senso della misura, compostezza, limpidezza, pace interiore. Il tutto
canalizzato in una vena di amabile consuetudine, che consentiva all'ascoltatore
di trovare continuamente appigli per riconoscere una forma musicale
e, immediatamente dopo, per scorgervi i tratti innovativi che la spostavano
dal presente al futuro. Tra le più belle composizioni di Mendelssohn
ci sono sicuramente le celebri ouvertures, come Ebridi e la Grotta di
Fingal (scritte tra il 1830 e il 1832), e il Concerto per violino
in mi minore (1845).
3.
Il
Romantico perfetto: Fryderyk Chopin
Il polacco Chopin rappresenta
un terzo aspetto del romanticismo musicale. Se Schumann era irrequieto
e ribelle, e Mendelssohn -invece- equilibrato e popolare, Chopin si
ripiegava su se stesso per confrontarsi con i propri fantasmi. Concentrato
sulla propria espressività e sulla propria arte, e supportato
da un genio non comune, Chopin distanziò il passato con audace,
spontanea (ed inevitabile) originalità. Il risultato fu una musica
che sembrava nascere dal nulla, che non aveva antenati o precedenti
artistici. Ed era stilisticamente perfetta, profondamente poetica, pervasa
da un sottile malessere esistenziale che permeava di toni torbidi l'opera
del compositore. I paesaggi sonori dei Notturni sono una discesa nella
psiche, nell'animo che ha sostituito l'arte alla vita, che teme la realtà
e guarda o meglio anela al sogno. Con Chopin ha inizio anche il nazionalismo
musicale, basato su un desiderio di semplicità che riparte dalla
riscoperta della tradizione popolare e si riferisce alle origini -geograficamente
contestualizzate- della musica. Mazurche e Polacche rivelano la componente
nostalgica dell'autore ma anche il suo stile inguaribilmente romantico,
che lo guida alla ricerca di un sentimento patriottico, sì, ma
idealizzato e, nella pratica, tanto sentito quanto lontano e irraggiungibile.
4.
L’eclettico Wagner
Nell'opera di Richard Wagner
(1813 – 1883) confluiscono tutti gli elementi del Romanticismo
musicale sino ad ora esaminati, con una mirabile fusione di parola e
suono che crea un netto spartiacque tra il passato ed il futuro. Gli
elementi basilari dell'opera wagneriana comprendono
un'inedita e sconcertante concezione armonica del discorso musicale,
abbinata ad una resa sonora del puro animo romantico teso verso l'irraggiungibile
o l'ineffabile, grazie all'impiego di un linguaggio che vuole ottenere,
con la musica, qualcosa di profondo, tangibile ed evocativo. Per questa
ragione Wagner non punta mai alla voce sola, al singolo strumento, ma
al miscuglio. E all'attività di compositore (autodidatta) si
affianca quella di teorico e divulgatore: il pensiero wagneriano non
è contenuto esclusivamente nell'opera omnia musicale, ma anche
in un'imponente produzione letteraria (“Arte e rivoluzione”
del 1849, “L'opera d'arte dell'avvenire” del 1850, “La
mia vita” autobiografia uscita postuma nel 1911). Anche per questo
la figura di Wagner fu determinante su tutta la cultura dell'Ottocento
e del Novecento. La sua esperienza estetica ebbe notevole peso su personalità
musicali come Gustav Mahler, Richard Strauss e Arnold Schöenberg,
ed anche su scrittori come Charles Baudelaire, Paul Verlaine e Friedrick
Nietzsche (dapprima fervido sostenitore del genio wagneriano e poi aspro
detrattore). Tra le opere musicali di maggior rilievo,Il Vascello Fantasma,
l'Oro del Reno, la Walkiria, Parsifal.
5.
Claude Debussy, un impressionista e il suo pentagramma
La seconda metà dell'Ottocento vede -da
un punto di vista sociale e politico- l'inasprirsi di crisi, contraddizioni
e contrasti a livello mondiale. La tradizione sinfonica classico-romantica
arriva a conclusione con il lavoro di Gustav Mahler
mentre il linguaggio coniato da Wagner viene portato alle estreme conseguenze
dal suo epigono Richard Strauss, la cui opera è
caratterizzata da epicità, enfasi, potenza, esotismo.
Il nuovo gusto musicale impressionista viene sviluppato
in Francia da Claude Debussy (1862 – 1918), nel
cui stile fortemente innovativo sono evidenti l'inedita concezione formale,
la varietà timbrica, la tendenza a superare le funzioni costruttive
e dialettiche dell'armonia tradizionale. È un caso isolato quello
di Debussy, musicalmente parlando, che trova invece forti corrispondenze
nelle poetiche dell'impressionismo e del simbolismo in campo pittorico
e letterario. Debussy ha un'unica, importante esperienza in ambito teatrale
con la trasposizione in musica di Pelléas et Mélisande
di M. Maeterlick (1893), opera che scandalizza l'opinione pubblica per
il suo rifiuto delle convenzioni del melodramma tradizionale e di quelle
del dramma wagneriano.
Tra i lavori prettamente musicali, invece, Trois Nocturnes per
orchestra (1897-1899), La mer (1903-1905), Images (1906-1912).
6.
Le origini della world music: Igor Stravinskij
Ed eccoci al cospetto di uno dei massimi artefici
della musica contemporanea, Igor Stravinskij (1882-1971).
Allievo di Rimskij Korsakov, musicista dal grande talento, sin dalla
gioventù mostra doti non comuni in ambito musicale, in virtù
di una capacità di composizione solida ed inossidabile, di un
dinamismo potente, di una speciale attitudine nel riuscire a rendere
vivaci ed esplosivi i colori orchestrali.
Il balletto L'Oiseau de feu (1909) è un'opera ora delicata e
toccante, ora travolgente e fiammeggiante. Il successivo Petruška
(1911-1912) è caratterizzato da un'incalcolabile ricchezza di
intuizioni ed innovazioni, che surclassano ogni opera coeva e balzano
-da un punto di vista musicale- decenni in avanti. Per quanto criticata
alla prima esecuzione dal vivo, Le Sacre du Primtemps (1912-1913) rappresenta
un nuovo, sconcertante sviluppo che mette un freno agli estremismi tesi
verso modernità rivoluzionarie. Stravinskij, infatti, guarda
alle profonde radici dell'anima musicale russa, le prende in esame,
decostruendole e riducendole ai minimi termini, per poi riassemblarle
con lo spirito del proprio tempo e aprendo una nuova via espressiva.
Non si tratta di una semplice rilettura della tradizione, bensì
di un processo -anche sofferto e travagliato- di immersione totale,
teso alla conquista di un equilibro personale all'interno dell'universo
musicale di ogni tempo.
7.
Il novecento: da Stockhausen a Cage
Il Novecento, così, viene ad essere un
momento di estrema transizione verso forme musicali e modalità
di esecuzione inimmaginabili. Per sintetizzare i livelli raggiunti partiamo
esaminando due figure. La prima è quella del tedesco Karlheinz
Stockhausen (1928), significativo esponente della musica d'avanguardia
che nella propria opera scardina regole e strutture, dando voce agli
oggetti (ad esempio i campanelli delle biciclette) e creando spartiti
dove le note lasciano lo spazio ai segni o ai simboli. In Stockhausen
la composizione diviene attività conoscitiva
e per questa ragione, molto più vicina al raggiungimento della
consapevolezza interiore che non all'estasi artistica.
Discorso per alcuni versi simile nella seconda figura presa in esame,
quella dello statunitense John Cage (1912 – 1992)
il quale non si limita a comporre ma, addirittura, arriva a manomettere
gli strumenti musicali tradizionali per ottenere effetti inimmaginabili:
il suo pianoforte preparato vede -tra le corde dello strumento- una
grande quantità di gomme, chiodi, pezzi di cartone e così
via. Grande merito di Cage è quello di riuscire a dimostrare
che la musica è, prima di tutto, un processo vitale e fluente
di creatività. Concepisce infatti l'opera aperta, un momento
-basato su uno schema di scrittura codificato- nel quale si punta a
stimolare le potenzialità dell'interprete e non a vincolarle.
Il lavoro di Cage ha incontrato non pochi detrattori, ma resta un punto
di riferimento per tutta l'arte musicale del Novecento.
8.
Music is The Best: Frank Zappa
Il nostro viaggio nella Storia dei suoni e delle
composizioni si chiude con la figura di Frank Zappa
(1940 – 1993), personalità emblematica e profondamente
influente che, nonostante la catalogazione “rock” è
in realtà profondamene legata a tutta la musica, senza preclusioni
di genere. Nella musica di Zappa l'ascoltatore attento potrà
trovare sofisticati (e, talvolta, esilaranti ma sempre rispettosi e
rispettabili) riferimenti alla ricerca etnica di Igor Stravinskij, alle
collisioni orchestrali di Charles Ives, alle partiture per grandi spazi
di Aaron Copland, alle sperimentazioni di Edgar Varése ed Anton
von Webern, alle esperienze atonali di Arnold Schöenberg, alle
colonne sonore di film, telefilm e cartoni animati, per non parlare
di frequenti inclusioni di elementi jazzistici (dallo swing al free,
da Miles Davis a Eric Dolphy a Ornette Coleman), blues e, naturalmente,
rock'n'roll. Il tutto condito, organizzato, orchestrato con una sensibilità
fuori dal comune, che mira prima di tutto a mantenere vitale, stimolante
e slanciata verso il futuro la musica. Da un punto di vista orchestrale
gli album di Zappa più importanti sono Orchestral Favourites
(1978), Perfect Stranger (direttore: Paul Boulez, 1984), London BBC
Orchestra (1984), Yellow Shark (con l'Ensemble Modern, 1992). Il modo
migliore per descrivere questo compositore è usare un verso tratto
dal testo di Packard Goose, brano scritto da Zappa e contenuto nel divertente
(e scollacciato) album Joe's Garage del 1979: “Informazione non
è conoscenza, conoscenza non è saggezza, saggezza non
è verità, verità non è bellezza, bellezza
non è amore, amore non è musica. La musica è il
meglio.”
SENTIRE E ASCOLTARE LA MUSICA
Lo sviluppo della musica dipende più
di qualsiasi altro dalla tecnica
(Arnold Schöenberg)
1.
Le origini della fonografia
Esistono profonde interrelazioni tra la musica
e le modalità di ascolto della stessa. Prendiamo in esame gli
strumenti che hanno reso ripetibile, condivisibile e trasportabile l'esperienza
musicale.
2.
Il vinile
Il fonografo viene inventato da Thomas A. Edison,
come strumento di supporto alle attività di dettatura in ufficio.
Nel 1877 viene registrato “Hello”, il primo brano della
storia, inciso su una sottile lamina di stagno. Il suono è primordiale
e sconfortante, ma stimola una serie di ricerche che conducono alla
realizzazione, nel 1902, del 78 giri in vinile (PVC),
materiale plastico molto maneggevole che riproduce magnificamente -per
i criteri dell'epoca- il suono. La diffusione del grammofono (creato
e commercializzato dalla United States Grammphone Company
nel 1897) cambia radicalmente le abitudini, prima della borghesia e
via via anche delle fasce popolari più ampie: la musica può
essere ascoltata ovunque e può diventare, per la prima volta,
un elemento integrante della vita domestica, realizzando una separazione
emotiva dalle difficoltà (e dai rumori) del mondo esterno.
3.
La radio e il Juke box
A partire dagli anni '20 si diffonde una nuova
modalità di ascolto: quello radiofonico. Strumento di diffusione
sonora affascinante e versatile (che tutt'oggi è profondamente
amato), la radio fornisce una nuova possibilità, quella di ascolto
casuale, mirato all'intrattenimento e all'informazione. A questo punto
perchè acquistare dischi, se la radio li fa sentire? si chiede
molta gente. E così l'industria discografica accusa la prima,
grandissima crisi, ma viene tratta in salvo da una specie di armadio
musicale a pagamento (monetine o gettoni): il juke box,
che riscatta dal prematuro oblio il vinile e lo porta nuovamente alla
ribalta: chi non possiede un grammofono o giradischi e chi non dispone
di una radio può operare la propria, personale selezione musicale
al juke box e rendere partecipi le persone presenti (tipicamente in
luoghi di ritrovo come bar e pub).
4.
La payola
Questo termine esotico indica una pratica illecita
e famigerata: la programmazione radiofonica dietro compenso da parte
delle case discografiche. Il disc jockey (ovvero chi
mette musica alla radio e decide la programmazione musicale), in sostanza,
non sceglie in base al proprio gusto oppure contestualmente ad un argomento
o tema da sviluppare, ma seguendo precise direttive dell'industria della
musica.
5.
Il long playing e il 45 giri
Durante la Seconda Guerra Mondiale, l'esigenza
di avere supporti registrati di lunga durata (da utilizzare per lo spionaggio
politico) porta ad una repentina accellerazione nella ricerca fonografica.
Nasce il cosiddetto microsolco, o 33 giri, un nuovo formato che permette
la registrazione di ben 30 minuti -continuati- di audio. L'etichetta
discografica della Columbia Company perfeziona il formato e lo usa per
commercializzare la musica classica. Un'altra compagnia, la RCA, punta
invece su un formato di consumo più veloce, il 45 giri.
Se il 33 giri è destinato ad un pubblico adulto (e con gusti
sofisticati) il 45 invece guarda con interesse ai giovani, più
sensibili alla musica di moda, pronta al consumo e da ascoltare in fretta.
I 33 giri per il pubblico giovane -in questa fase- hanno il compito
di raccogliere un po' di 45 giri, niente di più. Solo negli anni
Sessanta la mentalità cambia, grazie agli album Blonde On Blonde
di Bob Dylan (1966) e Freak Out! di Frank Zappa e le Mothers of Invention
(primo album doppio della Storia, anch'esso del 1966): non più
raccolte di singoli ma canzoni inedite, che diventano un prodotto artistico
concepito con una continuità tematica ben precisa.
6.
Il nastro magnetico
Nasce a ridosso degli anni '40 grazie alla ricerca
dei laboratori hitleriani nei quali si mette a punto il primo German
Magnetophon. Al termine del secondo conflitto mondiale l'esercito
americano si appropria dell'invenzione (una specie di “bottino
di guerra”). Introdotto all'interno dell'industria discografica
ne cambia per sempre i connotati, divenendo il supporto sul quale vengono
effettuate le registrazioni in sala d'incisione. Grazie alla possibilità
di contenere più tracce contemporanee (e per questo viene infatti
definito multi-traccia) consente di lavorare su uno stesso brano a più
riprese. Nasce una nuova figura professionale, quella del produttore,
ovvero chi coordina il processo di creazione e realizzazione della musica
suonata da un artista o da un gruppo musicale. Nasce il concetto di
sound: anche il suono di una canzone (o di un album) diventa di basilare
importanza, al pari della qualità artistica della composizione
e dell'esecuzione. Di album in album si sviluppa la pratica della sovraincisione,
che negli anni '60 raggiunge l'apice nella canzone A day in the life,
contenuta nel capolavoro dei Beatles Sgt. Pepper's Lonely Heart Club
Band. Il produttore del quartetto di Liverpool (considerato il quinto
beatles) è il geniale George Martin.
Negli anni '70 inizia a diffondersi la musicassetta,
piccola e comoda, che permette di registrare (innumerevoli volte) fino
a 120 minuti di musica. Temuta dall'industria discografica, non crea
in realtà particolari problemi: i dischi in vinile continuano
a vendere bene.
7.
Il walkman
Chi abita a Tokyo sa che potrebbe trovarsi ad
affrontare anche 2 o 3 ore di metropolitana al giorno per andare a scuola
o in ufficio. Per alleviare il tedio dovuto alle lunghe e ripetitive
trasferte di milioni di studenti o lavoratori, Masuru Ikanu e Akio Morita
inventano (sul finire degli anni '70) un minuscolo riproduttore di cassette
che permette di portare comodamente “a spasso” la musica,
ascoltandola con delle audio-cuffiette. Nasce il walkman,
brevettato da SONY, che in dieci anni ne vende ben 50 milioni di esemplari.
Attraverso questo strumento di ascolto la musica entra a far parte della
vita quotidiana, ne diventa il commento durante passeggiate, attese,
piccoli spostamenti. Ma non consente la condivisione, bensì porta
l'ascoltatore ad una sorta di isolamento continuativo che esclude o
rifiuta legami con il mondo circostante.
8.
Il compact disc e il digitale
Negli anni '80 arriva sul mercato il Compact
Disc (CD), un formato rivoluzionario per qualità e resa
acustica.
È un piccolo disco di policarbonato, del diametro di 12 cm, che
può contenere quasi 80 minuti di musica. La sua lettura avviene
mediante un fascio di luce che evita per sempre l'usura del disco dovuto
all'attrito della puntina (come avveniva, invece, nel giradischi). In
pochi anni il CD scalza completamente il vinile. Si realizza un fenomeno
parzialmente inaspettato: le fasce di età adulta iniziano a ricomprare
le ristampe in CD dei vecchi dischi in vinile consumati dall'usura.
L'esperienza di ascolto del CD è completamente diversa rispetto
al vinile, visto che non c'è il contatto (la puntina sul disco)
ma l'ingresso in un “enigmatico” lettore, e che è
possibile creare un ascolto in ordine vario o casuale dei brani contenuti.
Il CD, in quanto digitale, diventa in breve fruibile, cioè ascoltabile,
anche attraverso il computer se dotato di lettore.
Negli anni '90 viene commercializzato il formato DVD (Digital Versatile
Disc), che -grazie ad una capienza quasi decuplicata rispetto al CD-
consente di immagazzinare molte ore di musica o un intero film, sempre
in formato digitale.
9.
Internet, MP3, masterizzatori
MP3 è un algoritmo
di compressione dei dati musicali dieci volte più leggero (cioè
meno ingombrante da un punto di vista di occupazione digitale) del formato
contenuto nel CD. Con i software peer to peer diventa possibile mettere
a disposizione, tramite la connessione Internet, i brani musicali contenuti
sul proprio computer e, a propria volta, disporre di brani altrui. Questa
pratica di scambio (gratuito) assesta un colpo drammatico alle varie
case discografiche, che vedono crollare le vendite. Dopo una resistenza
dissennata e controproducente, l'industria discografica inizia a pensare
a possibili soluzioni, ad esempio la nascita di etichette digitali e
la vendita di singoli brani via web.
Sentire
e ascoltare la musica: considerazioni finali
Cosa succederà in futuro?
Il mercato della musica soccomberà a causa dello scambio gratuito
(e inarrestabile) di musica on line? Nasceranno nuovi modi di commercializzare
la musica?
La musica tornerà ad essere un fenomeno prevalentemente “live”?
Dischi, CD e DVD diventeranno oggetti d'antiquariato per raffinati collezionisti?
IL
MERCATO DELLA MUSICA
La
parola ai protagonisti:
Paolo Maiorino, Roberto Rossi Gandolfi, Fabrizio Rioda, Ezio Guaitamacchi,
Giorgio Albiani, Marco Conforti, Elena Rapisardi
Ognuno
di loro traccia un quadro preciso e illuminante del settore, partendo
dal proprio punto di osservazione ed estendendo la visuale sino ad includere
elementi apparentemente distanti ma, in verità, importantissimi.
Sei interviste, quindi, di spessore, che ci forniscono informazioni
nuove e, inoltre, ci mostrano che tanti professionisti arrivano dalla
“gavetta”: ce l'hanno fatta solo grazie alla qualità
del loro impegno e del loro lavoro .
>
Solo se un disco entra nel cuore della gente diventerà un prodotto
di successo
Intervista
a Paolo Maiorino
Paolo Maiorino è il capo della promozione dell’etichetta
Sony BMG. Nel corso della sua carriera ha lavorato con artisti di primo
piano del panorama italiano e nazionale, contribuendo attivamente al
loro successo. E pensare che voleva fare il giornalista!
Cosa
facevi prima di entrare nel mondo della discografia?
“Nel 1987 mi diplomai in Ragioneria e decisi di partire per gli
Stati Uniti: mi iscrissi alla facoltà di giornalismo dell’Indiana.
Mi laureai in music Business nel 1989. Nel frattempo avevo iniziato
a collaborare con la rivista “Chitarre”: cercavano un esperto
di hard-rock e io capitai al momento giusto. In seguito lavorai alla
rivista “Metal Shock” per la quale, tra il 1987 e il 1990,
scrissi l’80% dei testi. Scrissi anche per “Tuttifrutti”
e “Flash”. Negli stessi anni cominciarono delle collaborazioni
con “Video Music”, prima come corrispondente dall’America
e poi come inviato. Dal 1990 tornai in pianta stabile in Italia e, oltre
a mantenere i vari rapporti di collaborazione appena citati, iniziai
a lavorare anche per Radio RAI.”
Alla
RAI di cosa ti occupavi?
“Non ci crederai ma, a quel tempo, la RAI non disponeva di una
persona che parlasse fluentemente l’inglese. E mancava anche una
figura che gestisse professionalmente tutto ciò che riguardava
i concerti. Diventai il loro consulente per i rapporti internazionali
e poi mi occupai della gestione contrattuale delle esibizioni dal vivo.
Ad esempio gestii la firma e gli aspetti organizzativi legati alla
messa in onda del Freddie Mercury Tribute che si tenne a Londra nel
1992.”
Insomma,
eri un giornalista lanciatissimo!
“Proprio così. Ma presi una decisione che mi portò
su una strada nuova: entrai nel mondo della discografia. In realtà
in precedenza avevo già avuto un paio di colloqui, ma gli esiti
non erano stati positivi. Probabilmente non ero convinto fino in fondo
di voler abbandonare il giornalismo. Nel frattempo avevo cambiato idea
e così, nel 1992, entrai a far parte della scuderia EMI, a Roma.
Lavorai lì per 3 anni, gestendo le etichette distribuite, che
comprendevano artisti come Queen, Pink Floyd, Marillion, Stadio.”
Dopo
l’esperienza EMI dove migrasti?
“Alla Sony, vestendo la carica di responsabile Columbia per Roma
e centro-sud Italia. Furono anni straordinari per la discografia, grazie
ad artisti come Maria Carey, Michael Bolton, Aerosmith. In quel periodo
mi avvicinai molto al mercato italiano, lavorando con De Gregori, Fossati,
Mannoia, Bluevertigo, Paola e Chiara. La svolta avvenne nel 1997, quando
mi trasferii a Milano, come capo della promozione della Columbia Record
per Sony.”
In
quel periodo continuavi ad occuparti di artisti stranieri ed italiani?
“Ho scelto di lavorare con il prodotto “local”, ovvero
italiano. L’ho fatto perchè mi consentiva di avere una
visibilità a 360° sul lavoro degli artisti, che vedevo nascere,
crescere, svilupparsi e, di conseguenza, potevo anche lavorare in prospettiva
sul disco successivo. Nel 2000 passai da Sony a BMG, come capo della
promozione Ricordi, un’etichetta storica caduta un po’ in
disgrazia. BMG voleva rilanciare Ricordi e trasformarla in una nuova
Virgin. Fece una campagna assunzioni molto mirata e rilanciò
il proprio catalogo, con una rosa di importanti artisti italiani e internazionali.
Io sono un grande appassionato di rock anni ’60 e ’70 e,
in futuro, mi piacerebbe lavorare su un catalogo che comprenda e valorizzi
questo importante periodo della storia della musica contemporanea.”
Come
si promuove un artista?
“Dipende dall’artista, cioè se è un emergente
che va “creato” dal nulla oppure se si tratta di un nome
da rilanciare. Facciamo qualche esempio. Quando ascoltammo per la prima
volta l’audizione di Paola & Chiara restammo colpiti dalle
loro capacità, ma ci rendemmo conto che il loro talento andava
amalgamato e gestito in modo opportuno, in modo da valorizzarlo evitando
pregiudizi o detrazioni a priori. Le Vibrazioni rappresentarono un altro
caso particolare: il feedback del mercato era ottimo; loro, in modo
non convenzionale, non erano emersi grazie ad un singolo di successo,
ma grazie ad un video.
Arrivarono nel momento giusto perchè erano quello che voleva
la gente, un gruppo a metà tra pop e rock e che avesse la capacità
di scrivere belle canzoni, che –alla fine dei conti- sono l’unico
modo per affermarsi. Il lavoro promozionale dipende sempre dalla reale
capacità degli artisti e dal loro talento.”
È
importante lavorare, oltre che sui contenuti, anche sui tempi promozionali?
“È basilare. Prendi Gavin De Graw. Negli Stati Uniti uscì
nel 2003, ma noi abbiamo aspettato le ultime settimane del 2005 per
proporlo in Italia, attendendo che si esaurisse l’effetto del
lancio di big come Santana ed Eurythmics, che avrebbero schiacciato
De Graw. Quando abbiamo presentato “Charriot”, il primo
singolo tratto dall’album di esordio di questo artista, alle radio
è piaciuto subito e così il successo è arrivato,
coronato dal primo posto in classifica per ben due mesi. Se avessimo
sbagliato i tempi sicuramente il risultato sarebbe stato meno rilevante.”
C’è
un momento dell’anno in cui il mercato è particolarmente
fermo?
“Il periodo a ridosso del Natale, diciamo dal 10 dicembre in poi.”
Ma
come, non è il momento in cui –tra regali e regalini- si
registrano gli incassi maggiori?
“Sì, ma gli ordini dei negozianti sono oramai chiusi. Le
settimane che vanno dal 10 dicembre al 15 gennaio sono un periodo morto.
Tornando al discorso sulle tempistiche, sapersi collocare in questo
periodo può portare a risultati sorprendenti. Infatti il caso
di De Graw, in questo senso, è esemplare. Adesso lui è
al lavoro sul suo nuovo album e confidiamo che possa darci molte soddisfazioni.”
Quali
sono le regole operative del buon discografico?
“Innanzitutto deve capire subito a chi è destinato un certo
prodotto. Se sbagli target hai fallito. Individuare i destinatari finali
non significa pilotare il lavoro dell’artista o manipolare i gusti
del pubblico. Promuovere significa anche stabilire le strategie in base
alle potenzialità del disco e dell’artista, fissando dei
punti precisi.”
Quali
sono, oggi, i parametri che permettono di dire: questo è un disco
di successo?
“È lo stesso di sempre: le emozioni che la musica sa suscitare.
Solo se un disco entra nel cuore della gente diventerà un prodotto
di successo. Ci sono tantissimi artisti che sanno scrivere belle canzoni
ma che non hanno potenziale commerciale e quindi, per forza di cose,
su di loro non si investe. È necessario ricordare una cosa fondamentale:
le case discografiche non sono istituzioni benefiche, lavorano sì
per la cultura della musica ma devono fare scelte commerciali ben precise
che garantiscano la sopravvivenza dell’azienda. È importante
dare un’opportunità ad artisti di rottura e innovativi
come Ivan Segreto, L’aura o Morgan che riprende in mano l’opera
di De André, ma non va dimenticato che hanno un’incidenza
relativa sul mercato. Come discografico non sento la responsabilità
primaria di promuovere un prodotto di qualità artistica elevatissima:
lavoro anche per dare alla gente quello che vuole. E se questo significa
proporre un album che non è ai vertici della creatività,
lo faccio.”
Quindi
una casa discografica deve operare con nomi che diano delle garanzie,
non è così?
“Sì e se questo consente di destinare una parte dei proventi
agli artisti di nicchia che meritano attenzione e dedizione, lo faremo.
Prendi i Delta V. Erano il nostro fiore all’occhiello. Pur non
totalizzando incassi o vendite significativi, avevano contraddistinto
una eccellente qualità della ricerca musicale. Adesso sono sotto
contratto con la EMI, ma auguro loro ugualmente tutte le fortune, perchè
c’è bisogno anche di loro nel panorama musicale internazionale,
proprio per il fatto che non propongono musica identica a quella che,
normalmente, inflaziona il nostro mercato.”
Come
sta il mercato adesso?
“È in profonda e instabile crisi. Il 2005 ha vissuto l'ennesimo
ridimensionamento dal punto di vista delle vendite. A settembre di solito,
dopo la stasi estiva, il mercato rinasce, mentre l’autunno dell’anno
scorso ha visto un ulteriore calo. Abbiamo toccato il minimo storico.
La sorpresa è arrivata a dicembre: il mercato non si è
fermato come al solito, ma ha continuato a crescere sino a fine gennaio.”
Qual
è l’impatto della pirateria e del download illegale?
“L’effetto è devastante. Per le giovani generazioni
scaricare musica dai siti peer to peer è una cosa scontata. Ma
questo avrà ripercussioni gravissime, che porteranno al ridimensionamento
del parco artisti. I contratti non verranno rinnovati, non ci saranno
più investimenti a medio/lungo termine: o fai subito un fatturato
decente o sei fuori. Credo che il download andrebbe legiferato in modo
diverso. L’etichetta H2O promossa da SonyBMG è una soluzione
possibile: vendere canzoni (il vecchio concetto dei singoli) via internet.
L'artista fa una serie di singoli e, se ha costante successo allora,
la realizzazione di un album è giustificata e si procede.”
Qual
è l’aspetto che ti piace di più del tuo lavoro?
“Il saper individuare una buona canzone ed il riuscire a presentarla
in modo adeguato ai nostri interlocutori, ovvero i media (e non il pubblico).
E il rendersi conto che, come ti dicevo prima, il compito della musica
è suscitare emozioni, prima di tutto in noi discografici che
poi, attraverso il nostro lavoro, trasferiamo queste emozioni alla gente.”
>
Ottieni
sempre dei risultati se il tuo lavoro ti appassiona
<
Intervista
a Roberto Gandolfi
Roberto Rossi Gandolfi è il direttore
di Tribe, Classic Voice e Opera, tre magazine che -mese dopo mese- esplorano
il mondo della musica, informando un pubblico ampio e diversificato.
Tribe si occupa di musica, costume e attualità, ed è diretto
ad un pubblico giovane. Classic Voice e Opera, invece, sono dedicate
o rivolte? interamente al mondo della musica colta e coprono un periodo
artistico che va dall'antichità alle avanguardie contemporanee.
Roberto ci ha raccontato la sua storia di critico musicale, inviato
e quindi direttore editoriale, mettendo in evidenza come e quanto sono
cambiati i gusti, le esigenze e l'umore del pubblico dei lettori di
riviste dedicate alla musica, agli autori, agli interpreti.
Hai
iniziato come giornalista?
“Non proprio. Ho esordito a Bologna, dove sono nato, in una radio
che cambiò nome più di una volta -BBC Punto Radio, BBC
Bologna, ecc-, non avevo ancora compiuto 18 anni. Nel gruppo di lavoro
c'erano anche Vasco Rossi, Maurizio Solieri, Red Ronnie e vari altri
personaggi...qualcuno -come l'amico Massimino- ci ha lasciati, qualcuno
è finito chissà dove.”
Cosa
succede dopo l'esperienza radiofonica?
“La passione e la conoscenza della musica erano tali che presi
una decisione: questo mondo doveva far parte della mia vita e del mio
percorso di vita professionale, forte di una solida conoscenza tecnica
relativa a buona parte della musica che usciva. Uscito dalla radio feci
un provino a L'Unità e venni assunto. Le persone che valutarono
le mie competenze erano attente, equilibrate, capaci e lavoravano in
un ambiente privo della competitività che si sarebbe sviluppata
negli anni a venire. Si fidarono di me e mi diedero libertà di
azione, cioè di scrittura: divenni il critico musicale de L'Unità.Il
mio percorso si sviluppò in seguito sui maggiori quotidiani nazionali,
passando per La Repubblica e arrivando, in epoche recenti, al “Messaggero”,
testata per la quale sono stato a lungo il corrispondente da Milano
per quanto riguarda la rubrica cultura e spettacolo.”
Lavoravi
anche per i magazine musicali?
“Iniziai di lì a poco. Nei primi anni della mia carriera,
infatti, compresi che, se volevo ampliare il mio raggio d'azione ai
periodici, dovevo studiare quello che producevano i maggiori gruppi
editoriali. I due giornali più importanti erano Rockstar e Ciao
2001. Il primo era raffinato e selettivo, con un pubblico più
ristretto. Il secondo aveva un bacino di utenza molto più ampio.
Chiamai entrambi e mi proposi.”
Qual
era l'oggetto della tua proposta?
“Interviste e servizi realizzati negli Stati Uniti, perchè
nel frattempo ero volato oltreoceano e, grazie ad un pass de L'Unità
-un pass che, in realtà, non mi dava alcun diritto, ma non se
ne accorse nessuno!- riuscii ad intrufolarmi ad una serie di concerti,
facendo molte interviste. Le proposi ai magazine sopra citati. “Rockstar”
mi disse un vago mah, vedremo, le faremo sapere.... Maria Laura Giulietti,
caporedattrice di “Ciao 2001”, invece, fu molto più
pragmatica e diretta. Mi disse: non perdiamo tempo, ti do sette giorni
per scrivere un pezzo di lunghezza tot...mandacelo e, se va bene, ti
richiamiamo.”
Sembra
un film. C'è anche il lieto fine?
“Sì: mi richiamarono. Maria Laura, che era anche conduttrice
radiofonica e produttrice musicale affermata, mi cercò senza
fortuna per 3 giorni. Quando riuscì a parlare con me mi redarguì:
Allora! Sono tre giorni che ti cerco! Dov'eri?!? Sai, all'epoca non
c'erano fax o cellulari: c'era mia sorella che rispondeva al telefono
e non mi passava le telefonate perchè ero sempre in giro. Il
rapporto professionale e umano con Maria Grazia continua tutt'ora. Da
lei ho imparato molte cose, con estremo rigore e con la spinta a superare
sempre i miei limiti.”
Lavoravi
sempre in Italia?
“Per poco, perchè decisi di trasferirmi negli Stati Uniti
e feci il corrispondente da lì. Dopo alcuni anni diventai inviato
e cominciai a viaggiare senza sosta, andando dappertutto. Ciao 2001
era un settimanale di enorme successo, arrivò a vendere ben 370.000
copie a settimana, tirature che solo Sorrisi e Canzoni TV riuscì
a raggiungere nei suoi anni migliori. E non esagero se ti dico che c'era
un'attenzione spasmodica nei confronti di quello che scrivevamo, eravamo
delle piccole star del giornalismo musicale. Giravo come una trottola.
Era faticoso ma estremamente appagante. Nell'evoluzione della mia carriera,
dopo anni da inviato arrivai a dirigere il mio primo giornale.”
Sia
Ciao2001 che Rockstar pubblicavano lunghi articoli sulle band musicali
più importanti del panorama nazionale ed internazionale, dalla
PFM ai Doobie Brothers. Evidentemente la gente voleva questo. Oggi il
gusto del pubblico è cambiato?
“Completamente. Il giornalismo musicale del Ciao 2001 di Maria
Grazia Giulietti era di approfondimento, molto vicino ai gusti popolari
e, allo stesso tempo, di altissimo livello qualitativo. Vicino all'impostazione
del celebre Rolling Stone, con meno pagine e, in più, rubriche
di dialogo aperto con i lettori. I redattori di Rockstar avevano una
mentalità più britannica, insomma scrivevano principalmente
per loro stessi. Ma il dato fondamentale è che ai tempi (anni
‘'70 e '80) c'era un livello di attenzione, analisi e preparazione
culturale legato alla musica molto più profondo e appassionato
di oggi. Per strada vedevi gruppi di giovani nei pressi dei vari muretti
che discutevano ore e ore di musica. Io vivevo a Bologna ma credo che
a Milano, Roma o Firenze fosse la stessa cosa. Tu immagina, ad esempio,
gli estimatori dei Genesis che detestavano (musicalmente, è ovvio)
chi ascoltava Led Zeppelin o Who. E partivano le discussioni, interminabili.
Ricordo che quando uscì Wish You Were Here si discusse per settimane
intere sugli assoli di David Gilmour, arrivando a sezionarli uno per
uno, nota per nota. C'era una passione nei confronti di questo mondo
che oggi, purtroppo, non c'è più.”
Quali
sono le ragioni secondo te?
“La passione è stata appiattita, affossata, annientata
da un'offerta eccessiva e priva di contenuti. Nel migliore dei casi,
fino a qualche anno fa, trovavi chi faceva bene del costume musicale
e chi lo faceva male. Oggi, in Italia, solo testate come Rolling Stone
propongono un format (all'americana) di approfondimento, ma quante riviste
ci sono così? E non può essere altrimenti: le nuove generazioni
non hanno più interesse a leggere otto pagine su una rockstar
o su una band, perchè vivono con il telefono in mano, ascoltano
la musica via telefono, navigano -molto spesso- con il telefono, giovcano
con il telefono, scaricano la suoneria e copiano i dischi. E danno un
valore della musica collegata alla gratuità del supporto, per
tanti fattori che sarebbe lungo elencare.”
A
cosa porta tutto questo?
“Ad un impoverimento, rispetto al quale le istituzioni hanno una
colpa enorme. Pensa solo alla scuola italiana e a come è stata
ridotta, pensa a come trattano la cultura. Anche l'atteggiamento passivo
e disattento delle famiglie non è privo di colpe. E, purtroppo,
anche noi giornalisti musicali abbiamo le nostre.”
Facciamo
un salto indietro nel tempo di nove anni: come nacque l'idea di “Tribe”?
“Mi resi conto che non si poteva più fare del giornalismo
musicale di approfondimento e, allo stesso tempo, avere delle tirature
elevate. Questa convinzione ha decretato il successo della rivista.
E, di fatto, oggi, c'è una deriva nella quale i punti di non
ritorno sono già stati abbondantemente oltrepassati. I tempi
di Ciao 2001 non torneranno più. Come ho già detto il
caso di Rolling Stone -versione italiana- è unico, è un
sassolino nel mare. La musica, oggi, viene principalmente vista come
prodotto e gli artisti vengono valutati anche in base ai risultati che
possono dare in edicola. Ciò nonostante Tribe non si affanna
a mettere in copertina gli pseudo-artisti che nascono e muoiono in una
stagione, anche se scelte di questo tipo -oggi come oggi- ti assicurano
vendite.”
Come
hai formato il team di lavoro di Tribe?
“Puntando a dare vita ad una redazione affiatata, di persone che
vanno d'accordo, e che conoscono reciprocamente le potenzialità
e le qualità del lavoro degli altri in squadra. Sono professionalmente
amici e operano per dare vita ad un prodotto di qualità. Dal
mio punto di vista il team deve avere libertà di azione, sì,
ma deve andare nella direzione che ho deciso io. Potrei usare l'immagine
figurata del padre-padrone. Sono una persona rigida nella disciplina,
ma d'altra parte do spazio, lascio lavorare le persone. Anzi! Le spingo
a buttarsi, ad osare perchè è dal confronto sul campo
che si ottiene maturazione professionale e personale. Ricordando quello
che mi hanno insegnato in gioventù: avere il coraggio delle proprie
opinioni, esprimerle in modo chiaro e sicuro, prepararsi a difenderle
se è necessario.”
È
difficile, difficilissimo o impossibile scegliere sempre i collaboratori
giusti?
“È molto difficile e, non fatico ad ammetterlo, anch'io
ho fatto i miei errori. A volte ti trovi davanti una persona che ha
un grande talento per la scrittura ma ha delle carenze personali che
ne limitano la crescita professionale e questo comporta problemi di
ordine vario. Il nostro mestiere è simile a quello del medico
condotto di una volta, lo puoi fare solo se hai la passione, la voglia
di impegnarti tanto e di essere sempre “in pista”. E, inoltre,
bisogna mettere in conto che si matura con l'esperienza ed esclusivamente
con l'esperienza. E il percorso di maturazione può essere lunghissimo.
Ci puoi mettere anche 10 anni a diventare un ottimo giornalista o un
ottimo caporedattore. E, attenzione, potresti non diventarlo mai. E,
oltre all'esperienza, è necessaria una costante autocritica:
non ti puoi sedere mai, devi continuare ad analizzare cosa hai fatto
e come lo hai fatto, senza accontentarti mai, ma lavorando anche per
fare un centimetro di avanzamento qualitativo in più rispetto
a quello che avevi fatto prima. Se c'è la passione e l'amore
per il lavoro che svolgi, riuscirai a superarti. Ottieni sempre dei
risultati se il tuo lavoro ti appassiona.”
Tu
come riesci a stare sempre vicino, anzi, dentro alla musica?
“Tribe interpreta le tendenze e coglie in anticipo le tendenze
a venire. Questo è il suo scopo. Per capire ciò, il mio
livello di attenzione sul mondo -musicale e non- del target di riferimento
è elevatissimo. Per quanto riguarda la musica, ascolto tutto
quello che esce. Dividendo l'ascolto. Con la pila di cd sul tavolo cerco
subito di farmi un'idea, ascolto un paio di brani e mi dico: è
in target con il nostro pubblico oppure no? E divido i cd da ascoltare
in modo approfondito -e da far confluire nel magazine- da quelli da
posticipare ad un secondo momento.”
Ma
dove trovi il tempo di ascoltare musica?
“Di tanto in tanto -ma succede davvero raramente- mi prendo un
giorno sabbatico, mi chiudo in ufficio e passo anche 10 ore ad ascoltare
dischi su dischi. Di solito ricavo il tempo dove il tempo non c'è
o quasi: in macchina, a casa, tra una riunione e l'altra.”
Quali
sono i tuoi dischi preferiti tra quelli usciti negli ultimi mesi?
““American Idiot” dei Green Day, pieno di echi familiari
(dal punk alle chitarre di Big Country e Alarm)perfettamente in target
con Tribe. L'ultimo Vinicio Capossela e l'ultimo capolavoro di Donal
Fagen, entrambi non in target con Tribe.”
Hai
ricordi brutti, belli o buffi legati al tuo lavoro?
“Brutti no: amo profondamente questo lavoro, nonostante sia estremamente
impegnativo e faticoso.
Ricordi belli, invece, ne ho tantissimi. Alcuni sono davvero curiosi.
Una volta, ad esempio, ero a Los Angeles in compagnia di un discografico
italiano che si chiamava Nico e di un altro collega. Incontrammo Lenny
Kravitz e Slash (Guns'n'Roses) per intervistarli e fotografarli. Al
termine decidemmo di andare a mangiare qualcosa. Non so come venne fuori
il nome di “Spago”, che era il ristorante più esclusivo
della città: frequentato principalmente da star, i comuni mortali
potevano stare in lista d'attesa anche due anni prima di sedersi ad
uno dei tavoli. Noi ci presentammo lì senza prenotazione. Parcheggiammo
urtando il marciapiede come in “Get Shorty”. All'ingresso
Nico disse: sono un manager, ho portato qui un paio di persone importanti
che arrivano dall'Italia. Eravamo io e l'altro giornalista. Io ero vestito
così: T-shirt nera con il logo del Jack Daniels, bermuda neri
con teschi bianchi qua e là -in rilievo!-, scarpe Nike tipo barrio.
Ci guardarono e, secondo me, pensarono: questi qui sono pazzi oppure
sono delle star che non ho mai visto; meglio non rischiare, facciamoli
accomodare. Da Spago la vicinanza al finestrone con vista Los Angeles
è direttamente proporzionale a quanto sei famoso. Ci misero al
finestrone, vicino a noi -giusto per fare due nomi- Jack Nicholson e
Martin Scorsese. Stavamo per iniziare a mangiare quando ci viene portata
al tavolo una bottiglia di champagne, gentilmente offerta da una tavolata
di (è inutile fare giri di parole) mafiosi seduti lì nei
pressi. Avevano scambiato il mio amico giornalista per Enrico Ghezzi.
Poi uno dei loro consigliorri venne a salutarci. L'amico disse: guardate
che io NON SONO Enrico Ghezzi, ecco, vedete la mia carta d'identità?
Il consigliorri gli mise una mano sulla spalla e, con un sorriso complice
e ammiccante, lo rassicurò: non si preoccupi, capisco molto bene
quello che vuole dirmi, anche noi viaggiamo spesso sotto...falso nome.
Nessuno ebbe il coraggio di insistere, mentre il resto del locale ci
guardava come se fossimo i protagonisti de “Il padrino”
“.
>
L’obiettivo di “Jungle Sound” è quello di diventare
un’azienda della musica a 360° <
Intervista
a Fabrizio Rioda
Fabrizio
Rioda è un musicista, un produttore discografico, un esperto
di marketing strategico ma, soprattutto, è un visionario: concepisce
idee che – di primo acchito - sembrano fantascientifiche o semplicemente
irrealizzabili ma poi, grazie ad una professionalità ineccepibile,
si trasformano in progetti e infine vengono realizzate con successo.
Abbiamo parlato con lui del suo quartier generale operativo (gli studi
“Jungle Sound” di Milano) e dello slancio con cui sta dando
un volto alla musica dal vivo online.
Il
tuo curriculum è molto vasto, ma come è cominciato tutto?
"Direttamente con la musica: dopo aver militato in diverse formazioni
ho iniziato a suonare con i Ritmo Tribale e con loro ho lavorato per
17 anni. Sai, era una di quelle band nate dalla semplice passione di
un gruppo di amici che, una volta imbracciati gli strumenti, hanno iniziato
a fare sul serio. Abbiamo seguito il percorso che ogni band emergente
sogna, dal contratto con la grande etichetta ai numerosi concerti (ne
facevamo più di 100 ogni anno). Riuscimmo a conservare l'attitudine,
la spontaneità e la indole della cult band."
I
Ritmo Tribale suonarono anche all'estero?
"Sì, in più occasioni. Proprio durante una lunga
trasferta che ci portò dappertutto (dalla Germania all'Algeria
agli Stati Uniti) e ci consentì di frequentare le sale prova
di mezzo mondo, mi venne l'idea di realizzare uno studio d'incisione
che non era mai esistito, per lo meno a Milano."
Uno
studio classico?
"Non proprio. All'inizio c'era la possibilità di incidere
ma esistevano -ad esempio- anche sale da ballo. Ma di lì a poco
ho focalizzato l'attenzione unicamente sulla musica. Trovammo uno spazio
in un ex-capannone industriale dismesso e ci mettemmo al lavoro, ristrutturandolo
da cima a fondo: erano nati gli studi Jungle Sound. Creammo una struttura
perfettamente funzionale. Per una fortunata coincidenza, di lì'
a un anno molte etichette importanti (le cosiddette major) crearono
le loro "finte" etichette indipendenti, come la "Black
Out". Jungle Sound puntò sulla discografia e realizzammo
produzioni di buon successo, come Karma e Scisma."
Lavoravate
anche su commessa?
"In un certo senso sì. Ad esempio un produttore esecutivo
si rivolgeva a noi e ci chiedeva di realizzare un prodotto finito, ovvero
un disco completo. Noi lo facevamo, coprivamo tutte le fasi del processo
produttivo e consegnavamo il prodotto finale. E' stato così per
molti lavori di band o artisti affermatissimi, dagli 883 a Gianna Nannini
ad Alex Britti.Ma sul finire degli anni '90 le cose cominciarono -purtroppo-
a cambiare."
Parli
della crisi della discografia?
"Già. Nel 1996 l'industria discografia accusò la
prima battuta d'arresto ma solo nel 2000 avvertimmo profondamente i
segnali di una crisi devastante, che riguardava il mercato ed i suoi
meccanismi, non certo la musica che invece in crisi non è mai
stata, pensa soltanto alla capillare diffusione odierna dei brani musicali
attraverso le suonerie dei cellulari o al fatto che la musica è
particamente ovunque."
Come
reagiste alla situazione?
"Differenziando la nostra offerta e puntando sul fatto che "Jungle
Sound" era diventato, prima di tutto, un meeting point all'interno
del mondo musicale, milanese e italiano. Qui si incontravano, e si incontrano
tutt'ora, artisti e discografici. Ci chiedemmo: a chi può servire
la musica? Chi può permettersi di pagarla o comprarla? Come facciamo
ad incassare e a far girare i soldi? Così decidemmo di seguire
la strada degli spot pubblicitari, che si rivelò vincente grazie
alla formula che avevamo approntato: il nostro punto di forza era il
data base di musicisti che potenzialmente potevano lavorare per noi,
un vero e proprio polmone artistico che, alla stregua di una serie di
staff esterni, avrebbe realizzato brani ex-novo, prodotti da noi. Stringemmo
rapporti con clienti come la nascente compagnia telefonica "3",
poi arrivarono anche grandi nomi come Nestlé e Ferrero. Lavorammo
sempre in outsourcing, cioè noi acquisivamo la commessa e gli
artisti realizzavano la musica."
A
questa attività in seguito si affiancarono altre iniziative?
"Il lavoro di consulenti musicali, che svolgemmo e tutt'ora svolgiamo
per clienti come Unilever (proprietaria dei marchi Algida, Findus, ecc)
o Unicredit. La nostra attività di consulenza si basa su un know-how
che le aziende non possiedono, perchè il mercato musicale è
fatto di piccole, complicate regole che noi -vista la nostra esperienza
pluiriennale- conosciamo bene. Questa competenza permette alle grandi
compagnie di potersi affidare a noi e di evitare fregature o scocciature.
Il passo successivo è stato quello di dire: le idee non ci mancano,
cosa aspettiamo a proporle alle aziende? Vediamo se sono intenzionate
a realizzarle. Così è stato. Abbiamo iniziato con l'Heineken
Contest, un grande evento nato per dare alle band –soprattutto
emergenti- la possibilità di esibirsi. La location scelta è
stata Imola. L'edizione iniziale si è tenuta nel 2005. La selezione
delle band finaliste è durata 45 giorni (nel corso dei quali
abbiamo ricevuto ben 1600 iscrizioni!). Sono state selezionati 15 gruppi:
3 destinati al main stage, gli altri 12 al palco "b". E' stato
un grande successo e Heineken ha deciso di abbracciare la nostra nuova
proposta: un tour in 15 locali italiani selezionati, nel corso del quale
le band avranno una grande occasione di visibilità. Un pool di
giornalisti e professionisti selezionerà il gruppo migliore,
che avrà diritto a 30 giorni di sala d'incisione, per poter realizzare
un album come si deve. Insomma, musicalmente parlando è una cosa
seria."
Jungle
Sound, oggi, è anche un palco web, il "Palco di Alice"...
"Sviluppando i progetti per Heineken ho avuto una nuova idea, nata
dal desiderio di continuare a lavorare con la musica dal vivo anche
se in modo più attuale, vicino cioè agli strumenti che
la tecnologia mette oggi a nostra disposizione. Il "Palco di Alice"
si trova all’interno del portale di Rosso Alice e, in realtà,
concretizza un'idea sulla quale lavoravo da 5 anni. Ho valutato la possibilità
di realizzare questo progetto con molti partner potenziali. Rosso Alice
ha detto: sì, ci piace. Posso dire che il “Palco di Alice”
è la dimostrazione che la tenacia porta sempre ad un risultato
concreto."
Come
funziona il "Palco di Alice"?
"C'è un piccolo studio con la regia e la sala dove si esibisce
la band, ripresa dalle telecamere e trasmessa in diretta online. Al
momento è possibile collegarsi solo dall'Italia ma confidiamo,
in futuro, di estendere la possibilità all'estero. In contemporanea
è partito anche un vero e proprio contest online, una gara dove
le varie band si esibiscono e chi sta a casa, davanti al proprio computer,
esprime il voto di preferenza. Fatto a 100 il totale dei voti, il 50%
starà agli utenti, l'altro 50% ad una giuria di qualità.
I vincitori avranno la possibilità di incidere per "H2O",
l'etichetta digitale di SonyBMG; alle tre band finaliste andrà
il privilegio di esibirsi in un importante locale milanese. Il contest
durerà 16 settimane, nelle prime 15 ogni settimana verrà
estratto un gruppo. La giuria cambierà di settimana in settimana
e nella settimana conclusiva tutti i presidenti delle diverse giurie
giudicheranno e sceglieranno i migliori."
Qual
è dunque l'obiettivo di Jungle Sound oggi?
"Quello di diventare una azienda della musica a 360°, che offra
servizi agli utenti, ai produttori, agli artisti, agli addetti ai lavori
e soprattutto alle aziende, che in noi possono vedere un partner importante
nell'ambito del marketing strategico legato alla musica. Le buone idee
non ci mancano e, anche se a volte sembrano fantascientifiche, prima
o poi riusciamo sempre a realizzarle."
>
È l'ascolto della musica a determinare l'esistenza della
musica stessa <
Intervista
a Ezio Guaitamacchi
Ezio
Guaitamacchi è una delle figure di riferimento nell'ambito dell'editoria
musicale milanese. Negli anni '80 è tra i fondatori della rivista
“Hi Folks”, dedicata alla musica country e rock. Sul finire
del decennio successivo dà vita ad un nuovo progetto editoriale
di successo, la rivista “JAM” che mese dopo mese informa
in modo approfondito e attendibile migliaia di appassionati di pop e
rock, con interviste ai musicisti, reportage, recensioni di album e
concerti. Intorno a JAM ruotano molti progetti, come gli speciali “Rockfiles”
dedicati -di volta in volta- a figure fondamentali della musica degli
ultimi 40 anni, come Bob Dylan, Jimi Hendrix o Kurt Cobain. All'attività
editoriale Ezio affianca anche quella di musicista, insegnante, scrittore
e relatore a conferenze o seminari. Con lui abbiamo parlato di come
è cambiato il rapporto tra la musica e i suoi fruitori nel corso
degli ultimi 40 anni.
Ezio,
sei stato tu ad avvicinarti alla musica o è stata la musica ad
avvicinarsi a te?
“Per risponderti devo andare indietro di un bel po' di tempo,
arrivando agli anni della pre-adolescenza. I miei primi ricordi associati
alla musica sono legati alla figura di mio fratello, che quando io avevo
circa 12 o 13 anni suonava con un gruppo. Lui era batterista, ma a me
il suo strumento interessava poco, almeno a livello istintivo: ero molto
più affascinato dagli strumenti suonati dai suoi amici, ovvero
il basso o le chitarre. In particolare attendevo l'arrivo dell'eccellente
chitarrista Maurizio “Icio” De Romenis -che oggi scrive
i testi degli spettacoli di molti comici affermati del panorama nazionale-
che aveva una fiammante chitarra Rickenbaker. Ricordo come fosse ora
il suo arrivo, il gesto di aprire il fodero ed estrarre lo strumento...vedere
la sua chitarra era straordinariamente eccitante. L'altro chitarrista
possedeva uno strumento altrettanto glorioso, la Fender Telecaster bianca.
Anche lui era un musicista bravissimo e si era studiato nota per nota
tutti gli assoli di Eric Clapton.”
Che
effetto ti faceva vedere tuo fratello e i suoi amici suonare?
“Era entusiasmante. Mi resi conto già all'epoca che guardare
dei musicisti in azione superava di gran lunga qualsiasi esperienza
di puro ascolto. L'esperienza visiva si faceva quasi tattile. E capivo
molte cose grazie all'osservazione, soprattutto riguardo alla costruzione
e alla struttura dei brani. Come musicista, in seguito, ho passato parecchio
rtempo ad ascoltare i brani di altri compositori per capire come sono
fatti, ma -azzardando un parallelismo con lo sport- è come prepararsi
ad una competizione facendo esercizi su esercizi in palestra: una rottura
di palle mondiale! Molto meglio esercitarsi sul campo, misurandosi direttamente
con le cose da fare. Che in musica significa suonare con gli altri.”
Allora,
siamo agli albori degli anni '70: riuscivi a trovare facilmente le informazioni
relative ai vari musicisti che ascoltavi o seguivi?
“Proprio per niente. Le fonti di informazione erano limitatissime.
Io -e come me tutti gli appassionati di musica- passavamo al setaccio
le copertine dei pochissimi album che riuscivamo a procurarci in modo
quasi rocambolesco, leggevamo con meticolosa attenzione anche la più
piccola nota. Allo stesso modo guardavamo o studiavamo le fotografie
contenute. Mi ricordo che pressai la mia povera mamma per farle trovare
le stesse toppe dei blue-jeans che aveva Neil Young in una certa foto.
E lei dovette farsi in quattro per riuscire ad accontentarmi.”
Come
inizia la tua attività di musicista?
“Arriviamo ai tempi del liceo. Frequentavo il quarto anno e formai
un gruppo che eseguiva solo canzoni di Crosby, Stills, Nash &Young.
Eravamo in grandissimo anticipo rispetto alla recente moda delle cover
o tribute band. Il gruppo era formato da quattro persone. La “parte”
di Neil Young venne affidata all'amico Fabrizio Bentivoglio, oggi affermatissimo
attore, che stupidamente decidemmo di allontanare dal gruppo, perchè
secondo noi non aveva abbastanza talento e non sarebbe andato -musicalmente
parlando- da nessuna parte. Rinunciando a lui rinunciammo anche allo
stuolo di amiche e ammiratrici che già all'epoca si portava appresso.”
E
dopo aver perso Bentivoglio/Young cosa successe?
“Il fatto di amare il country-rock ci avvicinò al lavoro
di gruppi come la Nitty Gritty Dirt Band, i Poco, i Flying Burrito Brothers,
che conoscemmo musicalmente grazie ad un amico il quale, al ritorno
da un viaggio negli Stati Uniti, ci fece scoprire le canzoni di tutti
i grupppi che ti ho citato. In Italia non li conosceva praticamente
nessuno! Sentire il suono del violino o del banjo ci affascinò,
al punto che uno di noi acquistò proprio un banjo -a 6 corde-
e cercò di suonare i pezzi dei vari gruppi, senza riuscirci.
Ricordo che un giorno esclamò, frustrato: ma è impossibile
suonare 'sta roba, ci vogliono delle dita lunghissime. Fui io a scoprire,
nel corso del mio primo viaggio in America (1976) che il banjo utilizzato
nel country ha...5 corde! Tornai in Italia portando la grande rivelazione:
è questo il banjo che viene usato nella musica che ci fa impazzire!”
Insomma,
se uno voleva delle informazioni doveva mettersi in viaggio!
“Eh sì, altrimenti non ti restava che brancolare nel buio.
Almeno fino a quando non capitava che -per caso o per fortuna o per
tutt'e due le cose- l'informazione chissà come arrivasse.”
Trovare
i dischi che ti interessavano era facile o difficile?
“A volte era semplicemente impossibile. Nei primi anni '70, giusto
per farti un esempio, a Milano i dischi di Neil Young erano irreperibili!
E dovevo andare a Gallarate, al negozio di Paolo Carù (che in
seguito fonderà la rivista “Ultimo Buscadero”) per
riuscire a trovarli, visto che li importava direttamente. Non ti dico
se andavo a cercare delle cose di nicchia. Alla fine degli anni '70
mi avvicinai al folk irlandese e al bluegrass: non c'era nulla!”
Esistevano
le riviste musicali per appassionati come te?
“Negli anni '70 c'era tutto il comparto delle riviste alternative,
come “Gong”, che tuttavia avevano una forte connotazione
politica, mentre a me interessava principalmente la musica. In seguito
arrivarono “Popster” e “Mucchio Selvaggio”,
mentre la storica “Ciao 2001” seppe adattarsi ai cambiamenti
in atto e si rinnovò profondamente. Ecco, queste erano le nostre
fonti di informazione.”
TV
o Radio?
“Ma no, figurati. Solo Renzo Arbore -che ha sempre avuto un gusto
ed un fiuto non comuni- faceva eccezione, trasmettendo musica obiettivamente
eccezionale.”
Sapevate
cosa succedeva sulla scena rock mondiale?
“Sì, soprattutto grazie al cinema. I grandi festival diventavano
film che venivano proiettati all'interno di rassegne divenute leggendarie.
A Milano c'era il “Cinema Leonardo” (oggi è un importante
teatro che ospita rappresentazioni non convenzionali o sperimentali),
ubicato nei pressi del Politecnico, dove vidi i film di Woodstock o
del Monterey Pop Festival, ed anche veri e propri concerti di una sola
band, come “Yes Songs” o “Pink Floyd Live At Pompei”!”
Quindi
erano rassegne dedicate alla musica e non ad un genere (o sottogenere)
particolare...
“Esatto, non esistevano divisioni, preclusioni o steccati per
gli appassionati: ascoltavamo tutto, dai Led Zeppelin a Joan Baez, da
Jimi Hendrix a Sly & The Family Stone. A seconda dei gusti magari
c'era la proposta che ti annoiava a morte e quella che ti galvanizzava,
ma ciò che contava era vedere, assaporare il concerto. Questo
superava qualsiasi discriminante.”
Parlando
di concerti veri, qual è il primo grande concerto di cui hai
memoria?
“Jethro Tull, 1972, era il tour di “Aqualung”. Avevo
solo 14 anni (e infatti andai al concerto al seguito di mio fratello,
che ne aveva ben 19!). Fu indimenticabile, uno shock assoluto.”
Come
ricordi la stagione dei concerti rock italiana degli anni '70?
“Sicuramente come una stagione breve, che venne bruscamente interrotta
da una serie di disordini che, con la musica, non avevano niente a che
fare. Ricordo il drammatico concerto di Carlos Santana a Milano, sul
cui amplificatore arrivò una bomba molotov. Da lì in poi
ci fu la messa al bando dei concerti che durò a lungo, trasformando
noi rockettari in improbabili cultori di generi come il folk celtico
o il free-jazz. Cose rispettabili, certo, ma noiosissime! Eppure non
c'era altro da vedere dal vivo: o quello o niente, visto che sul rock
era calato il sipario.”
All'epoca
riuscivi a decifrare le ragioni dei disordini di cui mi parlavi?
“Sinceramente no. L'ho capito molto tempo dopo. Ieri come oggi
i veri appassionati che vanno al concerto per la musica sono pochi.
La maggioranza è lì per ragioni -più o meno nobili-
che non c'entrano un bel niente. Anche negli anni '70 c'era chi andava
ad un grande concerto perchè era un momento di forte aggregazione.
Ma c'era chi chiedeva alla musica di rappresentare o cavalcare un certo
spirito di contestazione, mentre alla maggior parte degli artisti premeva
suonare. Capitavano anche cose stravaganti come il famigerato “processo
a De Gregori”. Certo, c'erano musicisti fortemente impegnati da
un punto di vista politico, come gli Area, Gaetano Liguori, gli Stormy
Six. Ma tutti gli altri, seppur ideologicamente schierati, non “marciavano”.”
Tu
venivi a sapere delle varie contestazioni ai concerti attraverso i giornali?
“No, quali giornali! Io c'ero, mio malgrado. Tutte le volte che
scoppiava qualche disordine io ero lì. Led Zeppelin, Santana,
Chicago, Soft Machine, Jethro Tull o Yes al Teatro Lirico. Non so per
quale strana coincidenza -forse semplicemente perchè andavo a
tutti i concerti di tutte le band che passavano da Milano- mi trovavo
in mezzo agli eventi contraddistinti da incidenti più o meno
gravi (ad esempio, al concerto dei Chicago presso l’Arena ci fu
un morto e non so quanti feriti). Purtroppo la sensazione della massa
in panico o l'odore dei lacrimogeni -che, ti assicuro, fanno davvero
piangere- mi è rimasto dentro. Ogni volta che, all'ingresso di
un palazzetto o di uno stadio, vedo la camionetta della polizia sento
una certa inquietudine.”
Ultima
domanda: credi che l'avvento della musica digitalizzata toglierà
valore a disco o cd?
“No, secondo me no. Questi sono ragionamenti che spesso fa l'industria
discografica. Non dimenticare che la stessa industria, negli anni '30,
dichiarò allarmata: stiamo per chiudere, perchè un mezzo
di comunicazione vi fa sentire gratuitamente quello che noi vendiamo
e questo mezzo è la radio. Oggi, come tutti sanno, le case discografiche
pensano che se un disco non passa in radio non venderà e corteggiano,
anche in modo imbarazzante, le emittenti radiofoniche, che poi -alla
fine- trasmettono tutte la stessa musica. Addirittura si sono inventati
il “music control”, questo indice che serve per valutare
qual è l'efficacia di un certo brano. Tutte cazzate. La riproducibilità
della musica consente all'ascoltatore di fruirne ogni qual volta lo
desideri. È una posizione passiva, forse, ma è il punto
di forza: è l'ascolto della musica a determinare l'esistenza
della musica stessa. Oggi negli Stati Uniti le Jam Band hanno fatto
capire alla gente che il concerto è unico ed irripetibile. Quindi
lo registrano e lo mettono in vendita: lo stesso brano non verrà
eseguito allo stesso modo nelle performance successive. E grazie agli
attuali strumenti di comunicazione (internet su tutti) è possibile
informare molte persone di quanto accaduto nei vari concerti, in tempo
reale o quasi. Oggi gli artisti hanno la grande occasione di lavorare
con i tecnici per far progredire davvero l'arte. Anche se non va dimenticato
che le arti non sono sempre in evoluzione. Ci sono periodi bui e altri
luminosi. Se pensi al pop-rock, la “golden-age” c'è
già stata, ma il livello si mantiene alto. Certo, ci sono tanti
prodotti minori in giro, ma non bisogna farsi condizionare da questo:
la buona musica c’è e continua ad esistere.”
>
È possibile passare anche un messaggio musicale diverso
dal solito ottenendo dei riscontri positivi <
Intervista
a Giorgio Albiani
Giorgio
Albiani è un chitarrista e compositore che, nel corso della propria
carriera, ha saputo spaziare tra le tradizioni della musica italiana
ed europea, dalla classica alla popolare alla world music.
Il suo è un approccio aperto, che travalica le divisioni di generi,
come lui stesso ci ha raccontato.
Come
musicista, qual è la tua storia?
"Ho iniziato a strimpellare e suonare la chitarra da piccolo, da
autodidatta. In seguito ho deciso di approfondire lo studio sullo strumento.
Mi sono iscritto al Conservatorio, dove mi sono diplomato nel 1986.
Dopodichè ho affrontato un ulteriore percorso di studi classici
alla "Normale" di Parigi. Mi sono fermato quattro anni nella
capitale francese e ho avuto modo di lavorare parecchio in ambito concertistico.
Tornato in Italia ho messo su uno studio di registrazione, affiancando
all'ambito per me consueto della musica classica anche quello della
musica tradizionale e popolare. In quel periodo ho fatto parecchi lavori
in cui la musica era profondamente legata al testo."
Quali
lavori ricordi di quel periodo?
"Il più importante è sicuramente la sonorizzazione
di alcuni canti della "Divina Commedia", con voce recitante
-tra gli altri- di David Riondino. Ma in generale credo che la cosa
più importante sia stata quella di trovarsi a mescolare, esperienza
dopo esperienza, tanti tipi di musica e, di conseguenza, tante forme
di pensiero artistico."
Ti
sei confrontato anche con altri territori musicali?
"Sì, c'è stata una lunga e importante esperienza
nell'ambito della musica elettronica, che rispetto ad altri generi è
sicuramente molto intellettuale ma permette di lavorare in situazioni
interessanti. C'è più leggerezza rispetto alla musica
classica, ma l'elettronica consente l'accesso a molti mondi e l'esperienza
acquisita può, in seguito, essere trasportata anche in contesti
diversi. D'altra parte la tecnologia semplifica alcuni passaggi ma anche
i lavori apparentemente più semplici, come la realizzazione di
un jingle o la realizzazione di un commento sonoro alle immagini, richiedono
una competenza molto vasta."
Credi
che il conservatorio sia aperto ai cambiamenti in atto nel mondo della
musica?
"Per quanto mi riguarda il conservatorio non è e non deve
essere un universo chiuso e refrattario. Infatti io opero da sempre
spostandomi tra molti ambiti, senza preclusioni di sorta."
Su
cosa stai lavorando in questo periodo?
"Ho appena terminato la realizzazione di due progetti legati alla
musica popolare. A breve uscirà un disco live e, inoltre, c'è
una produzione messa in cantiere con un gruppo francese che ha portato
avanti una vastissima ricerca linguistica, seguendo un tracciato geografico
che parte da Montpellier e arriva sino a noi. In concomitanza con queste
cose ci sono state alcune uscite per una piccola etichetta fiorentina,
che hanno raccolto critiche molto buone. In queste settimane sto lavorando
con due musicisti e l'album che produrremo uscirà -se non ci
sono cambiamenti in corso d'opera- per l'etichetta de "il manifesto".
Di
cosa si tratta?
"Musicalmente siamo vicini al jazz. I commenti sonori sono legati
alla trasposizione di una storia di droga, ma i toni non sono drammatici,
bensì fiabeschi ed evocativi."
Siamo
abituati a sentire molto pop e rock: come reagisce il pubblico alla
musica popolare?
"Di solito molto bene. Ho iniziato a dedicarmi alla musica popolare
su richiesta di grandi etichette come Emi prima e Warner poi. Volevano
che mi occupassi di arrangiamenti per sonorizzazioni. In un primo istante
non ero affatto convinto che fosse un'esperienza interessante, ma mi
sono dovuto ricredere, soprattutto grazie all'entusiasmo e all'apertura
mentale dei musicisti con i quali ho avuto il piacere e la fortuna di
lavorare. Mi sono trovato anche a condividere lo stesso palco con dei
miti del rock come i Jethro Tull."
Che
effetto ti ha fatto suonare davanti al pubblico dei Jethro Tull?
"Immagina una piccola formazione (1 chitarra e 3 voci) abituata
ad audience ristrette che, improvvisamente, ha davanti 10.000 persone!
Il primo impatto fu altamente emozionante, ma poi superammo questa fase
e suonammo con grande trasporto. La gente reagì benissimo. E'
vero che la massa -di solito- è abituata a sentire sempre le
stesse cose ma noi, in quell'occasione, abbiamo avuto la dimostrazione
che è possibile passare anche un messaggio musicale diverso dal
solito ottenendo dei riscontri positivi. E' fondamentale non dimenticare
le proprie radici. Gli italiani hanno un passato musicale importantissimo,
invidiato in tutto il mondo, è li che sta tutta la nostra forza.
Inoltre le differenze linguistiche -anche dialettali- e ritmiche sono
basilari e andrebbero rivalutate."
Credi
che se a scuola si studiasse la musica ci sarebbe un maggior interesse
da parte del pubblico?
"Credo che la percezione cambierebbe, in senso positivo. Se ci
pensi, di fronte ad una qualsiasi opera d'arte c'è attrazione
se chi guarda o ascolta ha le chiavi per comprendere le opere. Curiosità
e intelligenza si mettono in moto, la testa lavora e fa gli opportuni
collegamenti, ogni forma espressiva può diventare coinvolgente.
La scuola dovrebbe essere il luogo in cui viene tenuta in vita la tradizione
musicale, senza naturalmente cadere in trappole o compartimenti stagni."
Sei
a favore di una contaminazione tra generi musicali?
"Esistono tanti mondi (o generi) ma la genialità sta nel
riuscire a metterli in contatto tra di loro. E' il lavoro che hanno
realizzato compositori come John Williams o Ennio Morricone, che hanno
saputo pescare in ambiti diversi, ma in modo serio e strutturato, per
poi creare le giuste atmosfere che avrebbero sottolineato immagini o
situazioni."
Oltre
a quelli che hai citato, hai degli artisti di riferimento?
"Il primo, grande amore musicale è Fabrizio De André,
che ben rappresenta un importante percorso di crescita artistica. Ha
iniziato ispirandosi agli chansonnier francesi e poi è arrivato
a concepire un capolavoro come "Anime Salve", opera di grande
spessore che sapeva collocarsi ad un altissimo livello anche da un punto
di vista tecnologico. Per quanto riguarda gli stranieri le mie passioni
vanno dai Deep Purple ai Supertramp ad Alanis Morissette, ma è
sempre difficile restringere il campo a pochi nomi."
Quali
strumenti usi per ascoltare la musica?
"Dipende. Quando sono in viaggio ho il mio lettore MP3, piccolo
e comodo. Ho sempre con me anche il PC portatile, molto utile quando
si tratta di annotare le molte idee che mi vengono tra uno spostamento
e l'altro. A casa ho di tutto: dai piccoli riproduttori economici ai
raffinati impianti che consentono di gustare fino in fondo anche la
singola nota. In ogni caso, se posso ascolto la musica in cuffia, per
immergermi totalmente in quello che sento."
>
Abbiamo cercato l’indipendenza per poter lavorare e poter dare
vita a nuovi canali di diffusione del lavoro dei nostri artisti <
Intervista
a Marco Conforti
Casi Umani è una società di
consulenza artistica, gestionale, marketing e commerciale attiva a Milano
dal 1993. In particolare Casi Umani è specializzata nell’elaborare
e gestire progetti di marketing che prevedano l’incontro tra partner
artistico-editoriali (artisti, etichette discografiche, editori, produttori
culturali, festival ed eventi in genere) e partner industriali e commerciali
che abbiano l’esigenza di utilizzare la musica o, più in
generale, contenuti culturali e di entertainment per le proprie attività
di marketing e comunicazione.
In questi anni di attività Casi Umani ha sviluppato e gestito
le carriere artistiche di alcuni tra i protagonisti della nuova scena
musicale italiana, tra i quali Elio e le Storie Tese, Neffa, Sottotono
e Casino Royale, e ha ideato e realizzato progetti di marketing, eventi,
produzioni media ed editoriali per marchi come Adidas, Ballantine’s,
Istituto Europeo di Design, Red Bull, Virgilio e molti altri.
Abbiamo incontrato Marco Conforti, direttore generale della Casi Umani,
per parlare delle nuove esperienze di fruizione e possesso della musica,
dall'instant CD all'instant download.
La
realizzazione degli “instant CD” di Elio e Le Storie Tese,
ovvero la registrazione di un concerto venduta la sera stessa è
nata due anni fa. Cosa bolle in pentola oggi?
“Dall’anno scorso diamo al pubblico anche la possibilità
di scaricare direttamente un concerto in un proprio supporto digitale,
che sia l’iPod, il comune lettore MP3 o la chiavetta USB. È
l’instant dowload. Questo livello di commercializzazione del prodotto-concerto
di Elio e Le Storie Tese nasce da un’opportunità maturata
alcuni anni fa, quando decidemmo di renderci indipendenti dalle case
discografiche per poter lavorare in modo libero sulla musica.”
Questo
significa che un gruppo sotto contratto con un’etichetta non ha
libertà di azione?
“Sì, l’indipendenza è una condizione imprescindibile.
Le case discografiche detengono, cioè possiedono tutti i diritti
sulla produzione e divulgazione dell’opera dei loro artisti, e
decidono cosa si può e non si può fare. Noi ci siamo emancipati
da questo vincolo e poi abbiamo analizzato, studiato, progettato e infine
realizzato un modello che aveva ed ha l’obbiettivo di attivare
delle linee di ricavo dirette.”
Cosa
intendi?
“Instaurare un rapporto che unisce e mette in comunicazione diretta
l’artista e l’utente finale, come dire dal produttore al
consumatore. I concerti radunano fisicamente all’interno di un’area
definita il pubblico. Internet raccoglie intorno ad uno stesso sito
un mondo di fan, grazie ad un canale immateriale equipaggiato, se non
nato, per garantire il rapporto diretto tra i navigatori e il gestore
del sito stesso. Noi, come Casi Umani, abbiamo ideato delle iniziative
che sono coincise con la produzione di instant cd e instant download.”
Avete
anche realizzato degli “instant DVD”, non è vero?
“C’è stato un primo instant DVD in forma di test,
l’anno scorso, a Villa Arconati, nei pressi di Milano. Il secondo
test è previsto per il 21 maggio, a Pisa: Elio e Le Storie Tese
suoneranno al Teatro Verdi per un’iniziativa di Telecom Progetto
Italia. Filmeremo il concerto, produrremo il DVD e lo venderemo la sera
stessa. Sono in corso alcune valutazioni che ci porteranno a decidere
se fare gli instant DVD anche nel corso del tour estivo del gruppo.”
Quale
sarà il prossimo passo?
“Siamo interessati a sviluppare un ulteriore livello di diffusione
della musica, con il wireless. D’altra parte se chi viene al concerto
può comprare l’instant CD dello stesso oppure scaricarlo
sul suo iPod, perché non allargare il discorso all’etere?
Ed è possibile realizzare questo sia con un partner telefonico,
oppure in modo più artigianale -e secondo me è una via
altrettanto interessante, se non di più- con una rete wireless
locale.”
Ma
il wireless fa già parte della “quotidianità tecnologica”
della gente?
“Non in modo massiccio, ma è solo questione di tempo. Il
wireless ci interessa e vorremmo, come ci è capitato in altri
contesti tecnologici, essere i primi a fare sperimentazione anche in
questo ambito. Il nostro scopo è quello di aumentare le relazioni,
anche commerciali, tra pubblico e artista. Chi va al concerto, in questo
modo, quando si spengono le luci possiederà dei contenuti che
resteranno nelle sue mani e che potrà continuare a consumare
anche dopo.”
Il
pubblico di Elio e Le Storie Tese come ha reagito alle vostre iniziative?
“Bene, anzi meglio di quanto potessimo immaginare. L’aspetto
più bello è che si è dimostrato pronto. Noi abbiamo
voluto scommettere su questa possibilità e i risultati ci hanno
dato ragione. Da molti anni sostengo che le aziende e il mercato, anziché
stimolare o incentivare i consumatori, tendono a frenare la tendenza
al consumo digitale ed interattivo. Il peer-to-peer dimostra la forte
spinta al consumo digitale, ma ci sono ancora lotte per affermare gli
standard. Sono lotte che non hanno niente a che vedere con la diffusione
del prodotto artistico, ma ne rallentano la diffusione.”
Come
vedi l’esperienza di Apple, che ha fornito una piattaforma efficiente
ed ha incentivato la vendita di brani online?
“Bene, perché Apple ha integrato hardware e software in
modo intelligente e funzionale, facilitando i processi commerciali legati
alla musica via internet. Ma la maggior parte delle altre aziende ha
solo cercato di limitare, bloccare o denunciare chi scaricava illegalmente.
I diritti degli artisti vanno protetti, ma blindare tutto non è
la soluzione. Anzi, questo tipo di soluzioni danneggiano i consumatori
che, dal canto loro, se non trovano i contenuti legalmente, ovviamente
scaricheranno illecitamente. Sono convinto che quando si sviluppa un
mercato legale, perlomeno nel mondo civile, c’è un assestamento
fisiologico tra chi sguazza nell’illegalità e chi, invece,
preferisce stare nella legalità.”
Qual
è il punto di arrivo del vostro percorso di innovazione?
“Lavorare nel business della produzione e diffusione di contenuti
artistici. In Italia nessuno fa Ricerca & Sviluppo in questo senso
e allora provvediamo per conto nostro. Noi abbiamo cercato l’indipendenza
per poter lavorare e poter dare vita a nuovi canali di diffusione del
lavoro dei nostri artisti. Siamo in una posizione privilegiata perché,
come Casi Umani, rappresentiamo un insieme di forze: artista, casa discografica
e soggetto che produce lo spettacolo.”
Obiettivi?
“Vogliamo andare avanti, posizionarci come avanguardia nell’ambito
Ricerca & Sviluppo, nell’incontro tra tecnologia e produzione
culturale. Intendiamo mettere a punto il nostro modello di business,
che stiamo costruendo da zero e che sostanzialmente vede la trasformazione
dell’artista in un canale media che fornisce direttamente contenuti,
nei concerti e/o nelle Reti, facendo in modo che gente venga, come dire,
ad abbeverarsi direttamente alla fonte, abbreviando la filiera e rimettendo
in attivo una linea di attività, quella delle produzioni discografiche
che, da quando è iniziata la crisi del sistema discocentrico,
è in declino e va assolutamente rimessa in attivo. L’attività
di produzione di contenuti registrati è una voce irrilevante,
mentre le prospettive future sono quelle per cui ciascun artista, nel
momento in cui produce eventi e contenuti in studio, diventa egli stesso
un canale di diffusione e distribuzione di contenuti, possibilmente
guadagnando da tutte quelle attività che prima delegava a casa
discografica, distributore, ecc, ovvero tutti quei soggetti che erodevano
una parte del margine di guadagno.”
Ci
sono altri che vanno nella vostra stessa direzione?
“Il sistema della musica, in questo momento, non mostra la volontà
di seguirci sulla stessa strada .Nessuno vuole rinunciare alla garanzia
di un contratto discografico e autogestirsi, autoprodursi, autodistribuirsi.
Elio e Le Storie Tese non stipuleranno mai più contratti con
delle etichette. Non ci sono discorsi ideologici alle spalle, ma ragioniamo
in termini molto pratici: gli spazi si restringono, gli investimenti
anche e bisogna reagire. Il nostro modello, ne sono convinto, si imporrà
con la forza della necessità.”
www.elioelestorietese.it
Alcune
riflessioni di Elena Rapisardi - project manager - sui costi della musica
Foto
di Alessandro Ferrini