Ryszard
Kapuscinski, Autoritratto di un reporter, Feltrinelli 2003
L’incredibile
avventura di un uomo nato in una sperduta cittadina della Bielorussia,
che per le combinazioni della vita diventa l’unico corrispondente
in Africa dell’agenzia di stato polacca. E comincia così
un suo cammino di libertà e scoperta, imprevedibile, quasi
impossibile.
Un grande giornalista, un grande reporter, ma anche molto di più,
perché Kapuscinki ci ha insegnato il viaggio come stupore,
come rivelazione in cui perdi le proprie certezze per confrontarle
con quelle altrui.
Il viaggio, nelle sue parole, è davvero un’esperienza
unica, irripetibile, perché anche se sei sempre con le valigie
in mano il luogo in cui sei giunto ti viene concesso una sola volta
nella vita.
E il sorriso, più che la penna, può aiutarti a schiudere
i misteri del mondo: un sorriso, è ovvio, che non sia ipocrita,
posticcio, ma venga dal profondo del cuore. Perché proprio
questo è il grande insegnamento del giornalista polacco: se
vuoi raccontare il mondo, non puoi che essere un uomo buono.
“Non ho mai incontrato un reporter cinico. È un mestiere
troppo difficile per i cinici, richiede troppo sacrificio e impegno.
Non si può farlo solo per i soldi”.
Bruce
Chatwin, Che ci faccio qui?, Adelphi 1990
Ancora
sembra di vedercelo davanti, con i suoi pantaloni corti da ufficiale
britannico in missione nel deserto, la sahariana, lo zaino sulle spalle,
Bruce Chatwin: giramondo avventuroso, curioso, a suo modo fortunato
ma soprattutto irrequieto. Un uomo che sembra fatto apposta per regalarci
dei sogni da tenerci stretti, per riscaldarci il cuore.
Dalla Patagonia che ha contribuito a trasformare in un mito letterario
ai deserti dell’Australia dietro le vie dei canti immaginate
dagli aborigeni e all’Afghanistan prima delle follie della guerra
e del fanatismo. Dalla Toscana dove a lungo è stato ospite,
in un castello del Valdarno, alla leggendaria Timbuctù.
Chatwin ha viaggiato per molti buoni motivi, ma soprattutto sospinto
da un’irrequietezza esistenziale che ha un certo punto gli ha
fatto lasciare tutto per non fermarsi più. E proprio in queste
pagine, raccolte prima di una morte che è arrivata troppo presto,
l’uomo con lo zaino sulle spalle ci racconta la sua straordinaria
esperienza.
Ovunque nel mondo e ovunque accompagnato dalla solita domanda.
“Che ci faccio qui?”.
Cees
Nooteboom, Hotel Nomade, Feltrinelli 2002
Indugi
sulle sue pagine e non puoi non pensare alle parole di un filosofo
arabo del dodicesimo secolo, Ibn al-Arabi: “Non appena vedi
una casa dici: voglio restare qui, ma appena arrivato lì la
lasci di nuovo per metterti in cammino”.
Cees Nooteboom è uno dei grandissimi scrittori europei dei
nostri anni, ma soprattutto è un nomade caparbio, appassionato,
incapace di darsi tregua. Un giorno si è messo sulle spalle
lo zaino, ha salutato la madre, è saltato su un treno ed è
diventato una freccia puntata sulla lontananza.
Da allora non si è più fermato, però ci ha messo
un po’ più di tempo e di esperienza per capire che in
un posto comunque è rimasto sempre: proprio quel posto dove
è solo con se stesso.
In questo libro le infinite stanze di albergo del suo errare diventano
le stanze della sua anima: e lui le apre per farti entrare e accoglierti.
“Forse le cose stanno così: il vero viaggiatore si
trova sempre nell’occhio del ciclone. Il ciclone è il
mondo, l’occhio è ciò con cui lui guarda il mondo.
La meteorologia ci insegna che nell’occhio si sta tranquilli,
forse quanto nella cella di un monaco”.
Claudio
Magris, L’infinito viaggiare, Mondadori 2006
Scritti
sparsi, appunti, riflessioni che abbracciano un quarto di secolo di
esperienze di incontro con il mondo – o con i mondi –
del grande scrittore triestino. Lui è da sempre convinto che
viaggiare sia una scuola di umiltà, perché viaggiare,
dice, “fa toccare con mano i limiti della propria comprensione,
la precarietà degli schemi e degli strumenti con cui una persona
o una cultura presumono di capire o giudicano un’altra”.
E noi siamo con lui, e come lui persuasi che in viaggio le cose non
accadono, ma piuttosto cadono: perché vengono meno le certezze
che ci hanno accompagnato a lungo.
Poi però per strada trovi tesori che nemmeno si poteva immaginare.
E il viandante torna sempre più ricco a casa, perché
anche questo è vero: il viaggio in realtà è sempre
un ritorno.
“Chi viaggia è sempre un randagio, uno straniero,
un ospite… E così comprende che non si può mai
veramente possedere una casa, uno spazio ritagliato nell’infinito
dell’universo, ma solo sostarvi, per una notte o per tutta la
vita, con rispetto e gratitudine. Non per nulla il viaggio è
anzitutto un ritorno e insegna ad abitare più liberamente,
più poeticamente la propria casa”.
Andrea
Bocconi, Di buon passo, Guanda 2007
Ovvero,
come la verità dei luoghi può essere assorbita solo
con il dono della lentezza, in un procedere che è un lieve
caracollare. Perché se sei un proiettile che squarcia il mondo,
quel mondo non lo capirai mai, gli potrai fare solo del male. E davvero,
dello spirito di quei luoghi non riuscirai mai a impregnarti.
Ma se scegli la lentezza allora puoi entrare in un convento o montare
la tenda sul limitare di un bosco, riposare il tuo corpo poco allenato
in una trattoria su cui non avresti scommesso due lire, oppure spendere
le tue prime parole al mattino con gli sconosciuti di un paesino di
montagna.
Puoi fare questo e puoi fare altro: ma in ogni caso è così
che impari qualcosa di più del mondo che ti circonda e del
mondo che sei tu. È così che capisci perché lo
fai.
Andrea Bocconi questa volta non va lontano, come ha fatto in altri
libri, saltando di continente in continente. Non va lontano, e va
anche piano, a piedi per un mondo di cui dovrebbe sapere fin troppo.
Un fazzoletto di terra tra la Toscana, l’Umbria e la Romagna:
ma quanta storia c’è qui, e quante storie. Ditelo ai
fanatici del turismo estremo: il viaggio è qui, dietro casa.
“A piedi. Sì, a piedi. Da casa a casa, passando per
tanti luoghi che mi attraggono e per altri che ancora non so. Sono
abbastanza anziano per apprezzarlo e abbastanza in forze per poterlo
fare. Ho conosciuto molti vecchi che camminavano per i monti, si può
fare sempre, se le ginocchia funzionano”.
Paolo
Rumiz, È Oriente, Feltrinelli 2003
Da
Berlino a Istanbul sull’Orient Express, oppure da Trieste a
Vienna in bicicletta, o ancora sul Danubio a bordo di una chiatta.
Difficile dire quale dei sei viaggi raccontati in questo libro sia
il più intrigante, il più denso di rivelazioni su un
mondo e un’umanità che abbiamo giusto dietro casa –
perché l’Oriente di cui si parla non è quello
dell’Asia più remota – e che pure ci riesce più
distante della Thailandia. Fate voi: a ognuno il suo viaggio, anche
sulla carta.
Da anni Rumiz ci tenta con il fascino irresistibile di itinerari nello
spazio e nel tempo. E noi ben volentieri ci lasciamo catturare, persuasi
che ogni sua pagina è un passo in un mondo più grande.
Persuasi e convinti anche da quanto lui va proclamando, perfino sulla
quarta di copertina di questo libro. Perché poi qual è
l’eterno mistero, il dolce mistero che da sempre lega il viaggio
al suo racconto?
“Mi chiedo se la forza del racconto non nasca nell’uomo
da millenni di cammino, se il narrare (assieme al cantare) non nasca
nell’andare. E se il nostro mondo abbia disimparato a raccontare
semplicemente perché non viaggia più”.
Gianni
Celati, Verso la foce, Feltrinelli 2002
C’è
il Po, il grande fiume che scorre placido dandoti un’illusione
di eternità. E c’è la pianura che il Po attraversa,
con le sue distese dove puoi lanciare lontano lo sguardo, le sue nebbie
e i suoi contorni sfumati, le sue stradine che seguono il fiume come
un ospite dimesso. E poi c’è l’uomo, che su queste
stradine cammina, seguendo il fiume, per arrivare dove il mare di
terra diventa semplicemente mare. Insomma, un altro viaggio sotto
casa, impastato di quiete, riflessione e nostalgia, un altro viaggio
per dimostrarci che non è dove vai, ma come vai, perché
ovunque c’è una frontiera e un orizzonte, una soglia
che ti apre un mondo e un incontro che può cambiarti la vita.
Celati, in questo libretto, ci aiuta a capirlo meglio, portandoci
anche un altro regalo: la possibilità di un ritmo diverso da
imprimere alle nostre giornate, grazie a gesti semplici, semplicissimi,
fosse solo sedersi su un argine per rimirare l’acqua che se
ne va verso la foce.
“Anche le parole sono richiami, non definiscono niente,
chiamano qualcosa perché resti con noi. E quello che possiamo
fare è chiamare le cose, invocarle perché vengano a
noi con i loro racconti: chiamarle perché non diventino tanto
estranee da partire ognuna per conto suo in una diversa direzione
del cosmo, lasciandoci qui incapaci di riconoscere una traccia per
orientarci”.
William
Least Heat Moon, Strade Blu, Einaudi 1989
Aveva
ragione, Marcel Proust: “Il vero viaggio di scoperta non
consiste nel trovare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”.
Già, il viaggio, se è vero viaggio, racchiude sempre
in sé la possibilità di una rivelazione che in realtà
è una metamorfosi. Leggete questo libro, per persuadervi, senza
lasciarvi impressionare dalla mole: si legge di un fiato.
L’autore è un discendente degli antichi padroni delle
praterie, i guerrieri Sioux, ma oggi è solo una persona che
ha perso insieme il lavoro e la moglie. Le strade blu, invece, sono
le strade secondarie che nelle vecchie cartine geografiche sono segnate
appunto in blu: strade poco battute e quasi dimenticate, strade che
non cercano mai la via più corta, strade che a volte danno
l’impressione di non portare in nessun posto. Niente di meglio
per un uomo in crisi, che non sa dove andare, ma sa che deve andare.
Così Least Heat Moon, parte da solo, su un furgone che ha deciso
di chiamare Ghost Dancing, come la danza degli indiani. Rifugge le
highways che solcano l’America come possenti arterie dove pulsa
veloce il traffico e si perde in un mondo rarefatto, fatto di distanze,
silenzi, abbandoni. E proprio nei posti dove non c’è
niente trova tutto. Perché il tutto può essere anche
un suono a cui non avevi mai prestato attenzione o il colore mutevole
enigmatico di una strada blu al tramonto.
“Sulle vecchie cartine stradali d'America, le strade principali
erano segnate in rosso e quelle secondarie in blu. Adesso i colori
sono cambiati, ma subito prima dell'alba e subito dopo il tramonto
- brevi istanti né giorno né notte - le vecchie strade
restituiscono al cielo un poco del suo colore, assumendo a loro volta
un'arcana tonalità blu. È l'ora in cui le strade blu
hanno un fascino intenso, e sono aperte, invitanti, enigmatiche: uno
spazio dove l'uomo può perdersi”.
Infine
due grandi classici per ritornare alle sorgenti del viaggio.
Tra
i tanti, perché non leggere il Viaggio
in Italia di Michel de Montaigne?
Fa bene immergersi in queste pagine, che qualcuno indica come il capostipite
della moderna letteratura di viaggio. Ed è vero, questo diario
di viaggio è stato scritto addirittura nel 1580, i vari Goethe
e Stendhal sono arrivati molto dopo. Nonostante i secoli proprio questo
rimane il più moderno, se moderno, in questo caso, è
la consapevolezza del viaggiatore che non si sente superiore a colui
che incontra. Non è viaggiare, dice Montaigne, se percorri
il mondo lamentandoti per ciò che hai perso a casa.
“Viaggiare vuol dire strofinare il cervello contro quello
degli altri”.
Ma
la letteratura di viaggio non comincia forse agli albori della nostra
stessa civiltà? Non dimentichiamolo, c’è un capolavoro
che è già la storia di un uomo errabondo ed è
l’Odissea. Torniamo
ai suoi versi, torniamo al mito di Ulisse,
così come ce l’hanno raccontato anche altri poeti, come
Kafavis nella sua Itaca e come Dante:
come un uomo dilaniato dalla voglia di tornare nella sua isola, alla
sua casa, e dalla fame di conoscenza che lo porta oltre le colonne
di Ercole, verso il naufragio
Senza
dimenticare – e spesso lo facciamo – che nella sua peregrinazione
Ulisse viene accolto bene da tutti: e sarà perché nei
tempi antichi era impossibile sapere se l’ospite arrivato fosse
un uomo o un inviato degli dei.
“Sempre
devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca”.
(Constantinos Kafavis)
“Considerate
la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir
virtute e conoscenza”.
(Dante, Inferno, canto XXI)