Nel
silenzio dell’antica pieve, le parole di Erri De Luca.
Lo scrittore è stato ospite della bellissima pieve di Romena,
nell’ambito del ciclo di incontri ‘Le parole e il silenzio
– sulle orme di Tiziano Terzani’. Il percorso itinerante
organizzato dalla Fondazione Giuseppe e Adele Baracchi in collaborazione
con la Fraternità di Romena e la Cittadella della Pace di Rondine,
è approdato in un luogo dello spirito come Romena per concentrarsi
sulle grandi domande dell’uomo di fronte al senso del suo vivere:
‘Il richiamo dell’infinito’ è
stato infatti il titolo della conversazione con Erri De Luca.
Lo scrittore, assiduo frequentatore della Bibbia (ha imparato da autodidatta
l’ebraico antico) si professa un non credente che però
non esclude Dio dalla vita degli altri e che, anche, vede nella vita
degli altri segni consistenti di questa rivelazione. E questo è
stato uno degli aspetti trattati durante l’incontro condotto dal
giornalista Massimo Orlandi.
Ogni
Giorno
inauguro i miei risvegli con un pugno di versi,
così che il giro del giorno piglia un filo d'inizio.
Posso poi pure sbandare per il resto delle ore
dietro alle minuzie del da farsi.
Intanto ho trattenuto per me una caparra di parole dure,
un nocciolo d'oliva da rigirare in bocca.
Scrittore tra i più amati e apprezzati nel nostro Paese (ma anche
in Francia dove gli sono stati assegnati numerosi premi), De Luca si
è rivelato come autore intorno ai quarant’anni quando (era
il 1989) ha pubblicato il suo primo libro ‘Non ora non qui’.
Ma nei suoi libri si ritrovano tanti momenti della vita vissuta fin
lì: l’infanzia a Napoli, la partecipazione ai movimenti
del ’68 e la sua militanza in Lotta Continua, i lunghi anni come
operaio, camionista, muratore, e poi, in seguito, la sua presenza, nelle
ore cupe della guerra nella ex Jugoslavia, come autista di convogli
umanitari.
Da
‘In alto a sinistra’ a ‘Aceto arcobaleno’,
da ‘Tre Cavalli’ a ‘Montedidio’, fino
al suo ultimo capolavoro 'In nome della madre', De Luca ha
conquistato fette sempre più vaste di appassionati lettori, che
lo hanno apprezzato e lo apprezzano anche come traduttore dei libri
della Bibbia, come autore di articoli (su vari quotidiani o su riviste
come Micromega), come autore di poesie o, come le definisce lui, di
“righe che vanno troppo presto a capo”. Da due
anni sale sul palco insieme a Gianmaria Testa e Gabriele Mirabassi per
proporre lo spettacolo ‘Chisciotte e gli invincibili’.
Invincibile
non è chi sempre vince,
ma chi mai si fa sbaragliare dalle sconfitte,
chi mai rinuncia a battersi di nuovo.
L'incontro
con Erri De Luca è stato allietato dalle musiche e canzoni eseguite
da Antonio Salis e da Antonella Di Maggio e dalle letture
tratte dalle poesie ed opere dello scrittore recitate da Alessandra
Aricò.
Valore
di
Erri De Luca
Considero
valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
Considero
valore il regno minerale, l'assemblea delle stelle.
Considero
valore il vino finchè dura il pasto, un sorriso involontario,
la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si
amano.
Considero
valore quello che domani non varrà più niente e quello
che oggi vale ancora poco.
Considero
valore tutte le ferite.
Considero
valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo,
accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi, provare gratitudine
senza ricordare di che.
Considero
valore sapere in una stanza dov'è il nord, qual è il nome
del vento che sta asciugando il bucato.
Considero
valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza
del condannato, qualunque colpa sia.
Considero
valore l'uso del verbo amare e l'ipotesi che esista un creatore.
Molti
di questi valori non ho conosciuto.
Riferimenti
bibliografici e approfondimenti
a
cura di
PAOLO
CIAMPI
…
Le parole per continuare…
Tiziano
Terzani, La fine è il mio inizio. Un padre racconta al figlio
il grande viaggio della vita, Longanesi, 2006
Sì,
la fine può essere davvero l’inizio, può essere
davvero un dono che fai a te stesso e agli altri. Tutto sta nella qualità
della tua esperienza, nel modo con cui decidi di prendere tra le tue
mani anche quel pezzo di vita dove a naso ti aspetteresti soltanto sofferenze
e paure. Tutto questo ci insegna Tiziano Terzani, mentre si avvicina
al capolinea del suo tragitto su questa terra: e a parlare non è
più il giornalista, ma l’uomo che racconta la sua vita
al figlio, Folco. Dal padre al figlio, nel segno di una vita che continua,
di una saggezza che va ben oltre le tante cose fatte e le tante persone
incontrate, perché prima di tutto è uno sguardo diverso
su se stesso. “E se io e te ci sedessimo ogni giorno per un’ora
e tu mi chiedessi le cose che hai sempre voluto chiedermi e io parlassi
a ruota libera di tutto quello che mi sta a cuore dalla storia della
mia famiglia a quella del grande viaggio della vita?”. Così
comincia questo viaggio diverso da tutti quelli fatti in precedenza.
Così cominciamo a scartare questo regalo.
“Se mi chiedi alla fine cosa lascio, lascio un libro che forse
potrà aiutare qualcuno a vedere il mondo in modo migliore, a
godere di più della propria vita, a vederla in un contesto più
grande, come quello che io sento così forte”.
Etty Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi
Probabilmente
di lei avete sentito parlare. Etty è la giovane ebrea olandese,
appassionata di letteratura e di filosofia ma soprattutto appassionata
di vita, che durante l’occupazione nazista venne inghiottita dalla
macchina dello sterminio. Come milioni di altri ebrei, certo. Ma anche
con una incredibile, sconcertante capacità di sorriso che nemmeno
gli aguzzini di Hitler furono in grado di cancellarle. Per Etty la scoperta
di Dio non è né precoce né scontata. Piuttosto
che una folgorazione è una lenta maturazione interiore: “Quella
parte di me, la più profonda e la più ricca in cui riposo,
è ciò che io chiamo Dio”. Etty è una
che perdona e ringrazia pure quando sale sul treno della deportazione.
Etty è convinta che il mondo rotoli melodiosamente dalla mano
di Dio e che sia necessario vivere con se stessi come con un popolo
intero. Parole da leggere, assolutamente, e da lasciar serenamente depositare
al fondo di se se stessi.
Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno
del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra.
William
Dalrymple, Dalla montagna sacra. Un viaggio all’ombra di Bisanzio,
Bur 2002
Era
il 587 dopo Cristo, un anno che si perde nella notte dei tempi: due
monaci bizantini, Giovanni Mosco e Sofronio il Sofista, partono per
un viaggio verso l’Oriente e poi verso l’Egitto, alla ricerca
di ineffabili risposte divine o almeno di se stessi. Quattordici secoli
più tardi, in un mondo fatto e disfatto chissà quante
volte, William Dalrymple, giornalista inglese che esce dalle università
di Cambridge, ripercorre lo stesso cammino, da quella che fu la splendida,
crudele, enigmatica Costantinopoli alle oasi del Sahara. Ne viene fuori
un lungo, emozionante, sorprendente racconto di viaggio dello spirito,
tra le pieghe di un mondo che non è quello che crediamo che sia.
E sotto i nostri occhi si snoda l’incredibile realtà di
antiche comunità cristiane sopravvissute anche alla possente
onda dell’Islam. Dai copti agli assiri, dai nestoriani ai siri,
un altro cristianesimo, arcaico e meticcio, caldo e solitario; un caleidoscopio
di precetti e di riti, di monasteri dimenticati e di eremiti che sono
come la sabbia del deserto, che scivola via ma che c’è
sempre.
"Sono seduto fuori dalla mia cella, sotto un pergolato di uva.
Per la prima volta dormo in un monastero in cui potrebbe aver soggiornato
Giovanni Mosco, ascolto lo stesso canto del V secolo, sotto gli stessi
mosaici… C’è solo uno sparuto gruppo di chiese nel
mondo che siano tante antiche. E’ incredibile il fatto stesso
che sia sopravvissuta, ma che sia sopravvissuta intatta e tuttora in
uso dopo il passaggio di Persiani, Arabi, orde di Mongoli e guerrieri
di Tamerlano, dopo la caduta di Costantinipoli in mano ai Turchi e la
cancellazione della presenza greca dell’Asia Minore – questo
è poco meno di un miracolo…."
Martin Buber, I racconti dei Chassidim,
Garzanti 1985
Un
classico della letteratura dello spirito, opera di un grande intellettuale
che nella sua vita mescolò sapientemente antiche tradizioni ebraiche
e robuste suggestioni della cultura mitteleuropea. I chassidim sono
gli “uomini pii”, i “suscitatori di fervore”
che alimentavano la vita spirituale delle comunità ebraiche dell’Europa
orientale. Per noi è difficile darne una definizione esatta:
santi o taumaturghi, mistici o semplicemente uomini di buon senso, illuminati
dalla indicibile bellezza della vita?
Un viaggio in un singolare giardino di saggezza che solo il nazismo
è riuscito a estirpare. E per noi curiosità, incantamento
e un pizzico di invidia per chi pare aver riscoperto il dono della profezia,
o almeno il segreto senso di un’armonia che, indicibile, unisce
l’uomo a Dio, l’uomo all’uomo, l’uomo alla Terra.
"Una volta lo spirito del Baalshem era così abbattuto
che gli sembrava di non aver parte al mondo futuro. Allora disse a se
stesso: Se amo Dio che bisogno ho di un mondo futuro? "
Ibn ‘Ata’ Allah, Sentenze e colloquio
mistico, Adelphi 1981
Perché
leggerlo? Per il piacere di racchiudere tra le mani e accarezzare una
piccola trascurata gemma, considerata da alcuni l’ultimo prodigio
del sufismo sulle sponde del Nilo. Per il piacere, purtroppo abbastanza
esclusivo ma assai salutare, di scoprire che l’Islam non è
solo sottomissione e conquista, ma anche misticismo abbagliante, inerme,
sufficiente a se stesso. Per il piacere di sentir risuonare dentro di
noi parole che compongono alcune delle più belle preghiere fiorite
nel mondo arabo. Ovviamente non un trattato di teologia: piuttosto sciabolate
di luce, lampi di verità e fede, folgorazione nel buio del cammino
umano.
"E’ raro che le illuminazioni divine non siano improvvise:
perché i servi non pretendano di averle preparate".
Arturo
Paoli, La forza della leggerezza, Fraternità di Romena
(a cura di Massimo Orlandi), 2007
C’è
il deserto, che come la montagna, sa offrirsi come un dono di saggezza;
ci sono le albe di ogni giorno che ci regalano un cielo azzurro come
una coperta di tenerezza che avvolge tutta l’umanità; ci
sono i sorrisi che puoi far emergere anche dalle profondità del
dolore, come semi piantati belli fondi ma che alla fine sono pianta,
fiori, frutti; c’è la vocazione e c’è la condivisione
della sofferenza, ma soprattutto c’è quella gioia di stare
al mondo che schiude la vita e si fa accoglienza. Sì, c’è
questo e altro, in un librettino che a vederlo non crederesti, tanto
è esile e umile. Eppure dentro c’è tutta la parabola
di una vita di incessante e laboriosa leggerezza, quella di Arturo Paoli,
sacerdote e poi piccolo fratello di Charles de Foucauld, dalla guerra
alle oasi dei tuareg, dalle favelas dei diseredati alla pace della sua
comunità in Lucchesia. C’è tutto questo e c’è
l’attesa dell’amico che un giorno ci verrà a prendere:
e di cui ci si può solo fidare, fidare e basta.
"C’è una religiosità pesante, oppressiva…
mentre la religiosità di cui parla Gesù è un vento
soave e non sai da dove viene e non sai dove va".
Bruce Chatwin, La via dei canti, Adelphi
Difficile
dire che cosa sia esattamente questo libro, il più spiazzante
dello scrittore più nomade dei nostri tempi. Un romanzo? Un saggio?
Un diario di viaggio? In Australia si sta costruendo l’ultimo
grande tratto di ferrovia, solo che il tracciato rischia di incrociare
e spezzare le linee immaginarie che uniscono i luoghi sacri degli aborigeni:
le Vie dei Canti, appunto, così chiamate perché la loro
memoria è incredibilmente trattenuta e trasmessa di generazione
in generazione attraverso canti rituali che sono anche mappe del territorio.
Singolare, curioso, affascinante: un libro per scovare tracce dello
spirito laddove in genere riusciamo a vedere solo sabbia, erba, cemento,
acciaio.
Nessun aborigeno poteva concepire che il mondo creato fosse in qualche
modo imperfetto. La vita religiosa di ognuno di essi aveva un unico
scopo: conservare la terra com’era e come doveva essere. L’uomo
che andava in walkabout compiva un viaggio rituale: calcava le orme
del suo Antenato. Cantava le strofe dell’Antenato senza cambiare
una parola né una nota – e così ricreava il creato.
Platone, Simposio, Adelphi (a cura di
Giorgio Colli)
Se
la scoperta dell’infinito è essenzialmente la scoperta
dell’infinito amore che lega ogni vita all’universo –
in fondo è questo l’approdo finale di ogni mistica –
allora non si può davvero prescindere dal Simposio, il dialogo
che è davvero l’inizio e il fondamento della nostra cultura
sull’amore. L’amore nel suo significato più sublime,
l’amore su cui si confrontano gli spiriti “eccellenti”
dell’antica Atene come Socrate, Aristofane e il bellissimo Alcibiade.
E non c’è dubbio che l’amore sia allo stesso tempo
divino e meraviglioso. Ma poi Eros – perché questo è
il suo nome – chi è davvero? In fondo è da allora
che su questo ci si continua ad accapigliare.
"Invero, tutti quelli che hanno parlato prima, a me sembra,
non hanno elogiato il dio, ma hanno chiamato felici gli uomini per i
beni di cui il dio è causa rispetto ad essi. Ma quale natura
abbia il dio, come tale, per cui egli fa questi doni, nessuno l’ha
detto…"
Eugen
Herrigel, Lo Zen e il tiro con l’arco, Adelphi
Un
piccolo fortunatissimo libro, che in altri anni ci portò nel
salotto di casa l’enigmatica sapienza del paese del Sol Levante
e che oggi, passate valanghe di modi e mode, non fa male rileggere:
fosse solo per scoprire che la sua freschezza è rimasta intatta,
che la sua lezione di vita ci desta ancora molta invidia. Un professore
tedesco di filosofia, che poi è l’autore stesso, decide
di andare alla scoperta della scuola Zen di buddismo giapponese. Invece
di sommergerlo di testi sacri i monaci lo esortano a imparare l’antica
arte del tiro con l’arco. E per farla sua ci sarà solo
un modo: rinunciare a quello che ha sempre ritenuto le sue armi migliori,
come la volontà e il desiderio di riuscire. “Un colpo –
una vita”, dicono gli arcieri Zen. E il professore tedesco, in
tutto e per tutto simile a noi, dovrà diventare la freccia che
solca l’aria, dovrà diventare lo stesso bersaglio della
sua freccia…
"Io temo di non capire più nulla, anche la cosa più
semplice mi si confonde. Sono io che tendo l’arco, o è
l’arco che mi trae alla massima tensione? Sono io che colpisco
il bersaglio, o è il bersaglio che colpisce me?"
John Donne, Poesie amorose, poesie teologiche,
Einaudi
E’
banale, ma splendidamente vero: è con la poesia che la parola
si mette al nostro servizio nel nostro bisogno di infinito, di sublime.
La poesia può davvero metterci le ali, darci l’illusione
del superamento delle costrizioni del tempo e dello spazio, farci toccare
qualcosa di troppo profondo e troppo elevato per la nostra vita di tutti
giorni, ma che è nella nostra vita. E allora conviene tuffarsi
nelle parole di questo poeta del Seicento inglese, temo conosciuto dai
più solo per quel frammento – “Per chi suona la campana”
– che ha regalato un titolo a un romanzone di Hemingway e poi
a un film spudoratamente hollywoodiano. Affidiamoci a lui, senza fermarsi
alla sua facciata di arzigogolata chiesa barocca. Affidiamoci a lui
e lasciamoci trasportare nei suoi voli mistici. Abbandoniamoci alle
vertigini metafisiche di chi sa di essere creato di ombra, di sogno
e di assenza, di chi teme solo la saggezza a rate – “Chi
è soltanto un po’ saggio è il pazzo più completo”
– non la menzogna della morte.
"Morte non essere troppo orgogliosa, se anche
Qualcuno ti ha chiamata terribile e possente
Tu non lo sei affatto: perché quelli che pensi di travolgere
In realtà non muoiono, povera morte, né puoi uccidere
me"
Foto
di Alessandro Ferrini