Sono Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso dalla mafia, Lisa Clark nota pacifista, e Amalia Ciardi Duprè scultrice molto impegnata nelle tematiche sociali, le donne di pace che lunedì 21 maggio hanno proposto la loro esperienza alla Cittadella della pace di Rondine nell’ambito del ciclo di incontri Le parole e il silenzio – Sulle orme di Tiziano Terzani.

La cittadella, nella quale vivono in comunità giovani provenienti da realtà in conflitto (come russi e ceceni, israeliani e palestinesi), è stata scelta per la seconda tappa del ciclo itinerante dedicato al grande giornalista e ai temi che lo hanno accompagnato soprattutto negli ultimi anni di vita (e in questo caso il riferimento è al libro ‘Lettere contro la guerra’). A Rondine la pace è stata rappresentata al femminile, sia per valorizzare le scelte di vita di alcune donne ‘speciali’ sia per anticipare una scadenza importante nella vita della Cittadella che da giugno comincerà ad ospitare nello Studentato Internazionale le prime ragazze.

Tra le donne di pace Rita Borsellino ha portato la sua esperienza in una guerra tutta nostra: quella contro tutte le mafie. Dalla morte del fratello, Rita ha scelto di impegnare tutta se stessa per far crescere una cultura della pace e della legalità; deputato al parlamento siciliano, è presidente onorario di Libera, la rete delle associazioni impegnate per la legalità e per riscattare le terre martoriate dalla criminalità organizzata.

Lisa Clark, una delle pacifiste più note e impegnate del nostro Paese, portavoce del movimento ‘Beati i costruttori di pace’, ha portato invece la testimonianza delle numerose missioni di pace cui ha partecipato dalla Bosnia all’Iraq sino al Congo.

 

Infine Amalia Ciardi Duprè, scultrice fiorentina, ha trasmesso i suoi segni di pace con le parole, ma soprattutto con le sue opere. In occasione dell’incontro è stato infatti presentato all’interno della cittadella il suo ciclo di lavori intitolato “Per ricordare Rita”, un omaggio alla figura di Rita Atria, la ragazza-coraggio che si uccise a 17 anni per sfuggire alla vendetta di Cosa Nostra.

L’incontro è stato condotto dai giornalisti Massimo Orlandi e Paolo Ciampi.

Momento clou dell'incontro, di concreta realizzazione di convivenza pacifica, l'abbraccio tra l'israeliano Shahar e il palestinese Loai dello studentato internazionale di Rondine, sotto lo sguardo soddisfatto del fondatore della Cittadella della Pace Franco Vaccari, mentre sullo sfondo venivano proiettate le terribili immagine del muro:

Anche la musica e il canto hanno sottolineato il tema della pace, grazie a due artisti come Giorgio Albiani (chitarrista) e Annamaria Iorio (cantante) che hanno eseguito "Gracias a la vida" e "Beautiful that way".

 

Citazioni, approfondimenti, riferimenti bibliografici...

a cura di

PAOLO CIAMPI

Terzani e la pace, prima di tutto. L’uomo che ha inteso l’11 settembre anche come una buona occasione per fare un esame di coscienza e ci ha donato Lettere contro la guerra:
“Ancor più che fuori, le cause della guerra sono dentro di noi… E’ il momento di uscire allo scoperto; è il momento d’impegnarsi per i valori in cui si crede. Una civiltà si rafforza con la sua determinazione morale molto più che con nuove armi”

Perché questa relazione forte, essenziale, naturale tra la donna e la pace?

La Lisistrata di Aristofane: Il titolo deriva dal nome dell'eroina protagonista, Lisistrata, ovvero: “colei che scioglie gli eserciti”.

La vicenda della Lisistrata, l'unica delle commedie di Aristofane a recare nel titolo il nome del protagonista, è notissima: l'ateniese Lisistrata, per mettere fine alla lunga guerra del Peloponneso che travaglia la Grecia, convince tutte le donne elleniche a uno sciopero del sesso; in appoggio a questo sciopero fa occupare dalle concittadine l'Acropoli. Gli uomini alla fine cedono.
La sua libertà di linguaggio e la sua assoluta irriverenza la rendono scabrosa perfino agli occhi della critica antica, da Aristotele in poi, ma quello che importa è il messaggio che lancia.
“Care amiche, disse loro, se gli uomini non la smettono di giocare alla guerra, noi faremo lo sciopero dell'amore. Quando arriveranno dalla battaglia e ci chiederanno di consolarli noi negheremo loro le nostre grazie, e tutto questo fino a quando non si metteranno d'accordo per fare la pace”.

Antigone, la tragedia di Sofocle del 442: l’eterno conflitto tra autorità e potere, ma soprattutto la pietà, il cuore, al di sopra delle legge degli uomini. Ed è ancora una donna, che sfida il divieto del re Creonte, anche a costo di essere lapidata dal popolo tebano, per portare a compimento i riti funebri del fratello Polinice, ucciso dall'altro suo fratello Eteocle.

Johan Galtung, uno che negli anni Ottanta lanciava un appello per la pace ogni tre giorni, scoprendo alla svelta che erano soprattutto le donne ad aderirvi, diceva:
“Le donne vanno dritte al cuore della sofferenza e della felicità umana. Non si lasciano intrappolare dalle astrazioni mentali e dalle gerarchie sociali…”

Si calcola che almeno il 95 per cento della violenza diretta sia da attribuire agli uomini. La guerra, si dice, è quasi uno sport maschile.

Caratteristica femminile, invece, è quella di amare teneramente, di proteggere e allevare la vita. La donna richiama il potere morbido. La donna è la concretezza del vivere quotidiano, è il "to care", il prendersi cura.

Donne che si sono messe in cammino per la pace, per la pace nel senso più ampio del termine, pace come rispetto integrale della vita e della sua dignità, e quindi pace e non violenza, pace e giustizia, pace e diritti umani, e quindi donne contro le stragi dei fondamentalisti in Algeria e in Afghanistan, donne in Sudamerica contro l’orrore dei desparecidos, donne contro i soprusi dei militari in Birmania.

Raccontare per storie di vita piuttosto che per temi:

Le storie

Cindy Sheehan, Mamma Pace

David Grossman in un suo articolo del 1996 auspicava “una vita in cui giovani coppie vorranno mettere al mondo tre figli, e forse anche più, semplicemente perché è una gioia crescerli”.

E’ il 4 aprile 2004: in un’imboscata il giovane soldato Casey, arrivato da appena 5 giorni in Iraq, viene fulminato da una pallottola alla nuca. Non ci sono parole per esprimere lo strazio della madre, Cindy: ma quel giorno in cui tutto sembra finire anche per lei, è anche il giorno in cui comincia un cammino di pace e speranza.
“Per quale nobile causa è morto mio figlio?”. Dalla domanda che è la domanda di tutte le madri in tempi di guerra Cindy esige risposte vere, non condoglianze. Le esige dai generali e da tutti i potenti del suo paese. E per ottenerle non esita a piantare una tenda davanti alla casa di George Bush e aspettare, aspettare mentre per milioni di americani diventa “Mamma pace”.
“Non me ne andrò fino a quando non mi avrà ricevuta. Mi siederò e mi rifiuterò di andarmene”
Quel giorno spezza la catena del silenzio e trova la sua voce.
“Quel giorno divenni una persona in grado di cambiare… Da semplice madre mi trasformai in una madre della pace”
“Non permetterò che capiti ai miei nipoti. Né ai vostri”

Colman McCarthy: “Siamo tutti pacifisti tra una guerra e l’altra. E’ come essere vegetariani tra un pasto e l’altro”

Betty Williams

Daisaku Ikeda: “Da un cuore pacifico e risanato nasce l’umiltà, dall’umiltà deriva la disponibilità ad ascoltare gli altri; dalla disponibilità ad ascoltare gli altri deriva la mutua comprensione e dalla mutua comprensione nasce una società pacifica… la non violenza è la massima forma di umiltà, la più alta manifestazione di coraggio”


Irlandese di Belfast, Betty Williams, vive un’esistenza del tutto normale, di casalinga, cameriera e segretaria, fino a quando in un episodio della guerra che insanguina l’Irlanda del Nord – una sparatoria tra soldati britannici e militanti dell’IRA – non assiste alla morte di tre bambini. Decide di reagire con una petizione contro la violenza, fonda la Community of Peace People e in pochi mesi porta migliaia di persone in piazza, cattolici e protestanti. Insieme alla zia dei tre bambini morti riceve il premio Nobel per la pace, motivato dal “coraggio delle persone comuni che hanno fatto il primo passo”.
Ha chiesto che i bambini fossero rappresentati alle Nazioni Unite “perché i bambini - dice – al contrario dei politici non sanno mentire”
“Ogni volta che i governi definiscono le persone uccise in guerra come ‘incidenti bellici’ mi arrabbio moltissimo, perché non esiste nessuna guerra che può definirsi accidentale o casuale. La guerra è un atto volontario”
“Una volta che i bambini vengono alla luce è nostra responsabilità non solo dar loro una casa, vestirli, dar loro da mangiare, farli crescere, amarli, ma anche assicurarci che vivano. Noi donne dobbiamo pretendere che i nostri figli abbiamo il diritto di vivere. L’unico strumento che abbiamo per cambiare il mondo in cui viviamo sono i bambini e le donne… La più grande impresa della mia vita non è stata quella di vincere il Nobel, ma è stata quella di crescere i miei figli. E adesso che sono diventata nonna sono più arrabbiata di prima perché ho anche dei nipoti e quindi sento di avere una doppia responsabilità”
E ancora:
“Vorrei allora suggerire agli uomini: fate provare le donne. Se otteniamo risultati peggiori dei vostri lasceremo perdere! Invece di considerarci delle pazze idealiste solo perché vogliamo proteggere il frutto del nostro ventre, cercate di amarci sinceramente e di sostenerci nel proteggere la vita dei nostri bambini, perché in questo modo sapremo che ci amate davvero”.
“Le nonne: le nonne sono potenti. Lo so perché anch’io sono nonna … “Esiste un potere dell’anima, qualcosa che chiamerei la ’forza dell’anima’, e questo potere esiste nelle donne. Le donne possiedono una potente forza dell’anima, o del cuore: di fronte a qualsiasi evento una donna reagisce prima di tutto con il cuore. Le occorre un po’ di tempo per unire il cuore e la testa. Ma nel momento in cui questo succede nasce qualcosa di veramente potente. Questo è potere. Questo è un grande potere…”

 

Mariane Pearl

Giornalista e regista, è la moglie di Daniel Pearl, giornalista del Wall Street Journal che fu rapito dai fondamentalisti islamici in Pakistan e poi decapitato nel gennaio 2002. Daniel è a Karachi, sta indagando su un uomo che voleva far saltare un aereo di linea Parigi-Miami con le scarpe imbottite di esplosivo. Quella sera, il 23 gennaio, Mariane, incinta di cinque mesi, lo aspetta per una cena da amici: lui non ritornerà mai. Otto giorni più tardi vene decapitato, qualche settimana dopo arriverà un filmato con le sue ultime parole: "Mio padre è ebreo, mia madre è ebrea, io sono ebreo". Qualche mese più tardi ritrovano il suo corpo, tagliato in dieci pezzi.
Al momento del sequestro, rivolse un appello così pacato, così dolce ai rapitori da stupire il mondo. Il suo sorriso ha sconcertato molti. La sua storia l’ha raccontata nel libro “Un cuore grande” (Sonzogno).

Il bambino nato si chiama Adam: come a significare un nuovo inizio.

Se è vero che la pace si fa con i nemici, non con gli amici, è anche vero che uno dei meccanismi che utilizza la guerra è negare l’umanità del nemico: il che, dice Terzani, è il segreto della disumanità di tutte le guerre.
“L’Islam è complesso e specifico. Però i fondamentalisti sono fanatici sia che siano musulmani, cristiano o ebrei. Per me sono solo dei dirottatori di fede”
“E’ vero, la politica ha il suo compito, la repressione poliziesca ha il suo peso, però fondamentalmente si tratta di una riforma individuale. E’ necessario rieducare le persone, secondo un lavoro lungo e difficile. La vera posta in gioco adesso è il mantenimento del dialogo, l’unica risposta da dare ad Al Qaeda”.

“Per cambiare l’odio nei cuori delle persone bisogna cominciare da se stessi”.

Umberto Eco: “Sino a che non saremo tornati in uno stato d’animo che consenta e incoraggi le distinzioni, saremo come Bin Laden, e come lui ci vuole”.

 

I grandi crimini della storia si risolvono spesso in liste di nomi, e solo nomi, di deportati o ammazzati, e magari in numeri, in quella “falsa aritmetica” di cifre che si rincorrono, di zeri, che alla fine non ti dicono molto, perché alla fine ogni vita è unica, incommensurabile, preziosa.
Numeri come la battaglia della Somme: che significa 30 mila soldati britannici ammazzati nella prima mezz’ora di combattimento? E un milione 300 mila morti alla conclusione della battaglia?
Questo ci ha aiutato a fare Liana Millu, grande scrittrice, alter ego di Primo Levi e come Levi segnata dalla terribile esperienza dei lager, raccontata in capolavori come Il fumo di Birkenau, come Levi rimasta dentro con un sordo senso di colpa, nella convinzione che i migliori tra i deportati sono quelli che non ce l’hanno fatta a sopravvivere.

Liana Millu

Liana Millu ci racconta questo, questa sua storia appena liberata.
Subito fuori incontra uno dei suoi aguzzini di prima, un soldato nemico:
un soldato tedesco sui 20 anni, smagrito, con uno di quei visi “che nei tempi org
ogliosi giravano pieni di primitiva arroganza”. Ora con l’uniforme ingrinzita, gli stivali rotti e impolverati, uno zaino tenuto con la fune.
“E’ in tutta la sua persona, nell’abito come nel corpo, la stanchezza greve della disfatta, quasi uno sbalordimento doloroso come di uno che all’improvviso si sia risvegliato in un amarissimo mondo e ne rimanga schiacciato ma non ancora convinto”.
Ha la testa china, soltanto di quando in quando getta uno sguardo sfuggente da bestia catturata e impaurita: “lo sguardo del cane che aspetta il colpo”.
“E io penso: odio quest’uomo? Potrei, se non io direttamente, godere nel vederlo maltrattare, nel vederlo umiliare? Penso e mi dico “lui” no. Uno no. Perché quest’uno posso osservarlo e comprenderne l’infinita stanchezza, l’infinita umiliazione, persino la bestiale paura… Per condannarli dovrebbero essere molti, diventare cioè astrazione. E le astrazioni si possono condannare e odiare con indifferenza o con piacere”.

 

Maria Montessori: forse qualcuno si ricorda ancora quel disegno con una signora dall’espressione intensa e sollecita che vigilava su due bambini che studiavano. Era un disegno sulla nostra vecchia banconota da mille lire.

La Montessori è conosciuta per le scuole, imperniate sulla volontà di costruire un ambiente adatto allo sviluppo dei bambini e non a caso scrisse libri in cui rivendicava i diritti dei bambini nei confronti degli adulti.
Maria Montessori ha vissuto due guerre e anche per questo un tema che le fu molto caro è quello dell’educazione alla pace. I primi suoi saggi su questo tema risalgono al ‘32 e vanno sino al ’39. Nel periodo più buio dell’Europa parla di pace, e ne parla in maniera modernissima.
Il rapporto inscindibile tra il bambino e la pace, dato che l'atto educativo è, per sua natura, un atto pacifico, e solo nella pace può esprimere i suoi più alti frutti. Già nella culla il bambino manifesta e testimonia il bisogno di pace, nella quale soddisfa gli istinti primordiali della vita.
Per uno dei tanti paradossi che caratterizzavano il suo messaggio, fu lei a definire il bambino maestro (non allievo, come sarebbe stato logico) di pace.
La “redenzione” del mondo verrà dai bambini, dal loro mondo interiore, dalla loro capacità di conquistare pace e comprensione per tutti gli uomini.
L'educazione è l'arma della pace, ha scritto Maria Montessori, e la pace la condizione della buona educazione.

“Garantire una pace duratura è compito dell’educazione. La politica può al massimo tenerci fuori dalla guerra”.

Ricordiamo il video shock trasmesso recentemente su un'emittente palestinese: "Dov'è tua madre?" "In paradiso". "E quanti ebrei ha ucciso?". Il bambino fa cinque con la mano.

Citazioni:

Così Terzani conclude le sue Lettere contro la guerra:
“Soprattutto dobbiamo fermarci, prenderci tempo per riflettere, per stare in silenzio. Spesso ci sentiamo angosciati dalla vita che facciamo, come l’uomo che scappa impaurito dalla sua ombra e dal rimbombare dei suoi passi. Più corre, più vede la sua ombra stragli dietro; più corre, più il rumore dei suoi passi si fa forte e lo turba, finché non si ferma e si siede all’ombra di un albero. Facciamo lo stesso.
Visti dal punto di vista del futuro, questi sono ancora i giorni in cui è possibile fare qualcosa. Facciamolo. A volte ognuno per conto suo, a volte tutti assieme. Questa è una buona occasione.
Il cammino è lungo e spesso ancora tutto da inventare. Ma preferiamo quello dell’abbrutimento che ci sta dinanzi? O quello, più breve, della nostra estinzione?
Allora: Buon Viaggio! Sia fuori che dentro”

“Il sogno è l’ombra di una cosa vera”, dicono gli aborigeni australiani.

Già Baudelaire, parlava del rito quotidiano della lettura del giornale, come di un’ubriacatura universale di atrocità: “Ed è con questo nauseante aperitivo che l’uomo civilizzato accompagna la sua colazione ogni mattina”.

Susan Sontag: “Se si diviene meno sensibili agli orrori di una guerra, qualunque guerra, è proprio perché si ha l’impressione che non possa essere fermata. La compassione è un’emozione instabile. Ha bisogno di essere tradotta in azione, altrimenti si inaridisce”

Susan Sontag: “Chi crede oggi che la guerra possa essere abolita? Nessuno, neppure i pacifisti. Speriamo soltanto (e finora invano) di fermare i genocidi, di consegnare alla giustizia chi commette gravi violazioni delle leggi di guerra…”

Daisaku Ikeda: “Se non riusciremo a ottenere una sostanziale trasformazione all’interno della nostra stessa vita tale da percepire la profonda connessione che esiste tra noi e tutti gli altri esseri umani e sentire le loro sofferenze come le nostre, non potremo mai liberarci dai conflitti e dalle guerre”.

“Dedicatevi a piantare i semi della pace… La pace non è un concetto astratto e lontano da noi. La pace dipende dagli sforzi di ciascuno di noi di piantare e coltivare i semi della pace nella realtà della nostra vita quotidiana, nella profondità del nostro essere, per tutta la vita. Sono certo che questa sia la strada più sicura verso la pace duratura”

David Grossman (La guerra che non si può vincere, Mondadori 2003)
“La pace è l’unica opportunità che abbiamo di vivere una vita piena”
Un suo articolo del 1996, in cui auspica “una vita in cui giovani coppie vorranno mettere al mondo tre figli, e forse anche più, semplicemente perché è una gioia crescerli”.

“Così tante cose care e momenti di intimità vanno persi nell’angoscia e a causa della violenza. Così tanta forza creativa, tanta immaginazione e pensiero vengono investiti nella distruzione e nella morte (o per preservarci dalla distruzione e dalla morte). Talvolta si ha la sensazione che la maggior parte delle energie venga impegnata nel preservare la vita e troppo poca ne resta per vivere veramente”.

“Talvolta il cervello si rifiuta di vedere ciò che l’occhio capta e gli trasmette. A parer loro tale fenomeno si produce perché il cervello, sommerso da infinite possibilità di interpretazione della realtà, è costretto a sceglierne una e ad agire conformemente. Il fatto interessante è che nel momento in cui il cervello sceglie una determinata interpretazione dell’immagine percepita dall’occhio, tutti gli stimoli a sostegno delle altre “scompaiono”, come se il cervello rifiutasse di considerarle”.

Pace e giustizia. Il sociologo e antropologo brasiliano Josuè De Castro: “C’è una parte che non dorme perché ha fame e l’altra parte che non dorme perché ha paura di quelli che hanno fame”

Pace e religione: Religione, deriva dal verbo latino religare, unire saldamente.
Nelle religioni orientali l’interconnessione di tutta la vita.

Tonino Bello, presidente di Pax Christi, in un incontro pubblicato da Romena con il titolo di "Il fuoco della pace", pensa alla pace come a un acronimo di preghiera, audacia, convivialità, esodo.
Preghiera: “La preghiera è un patrimonio di tutti, perché è dove c’è la luce che noi possiamo trovare certi valori”
Convivialità, un tema caro a tutti i maestri della nonviolenza:
“La pace non viene quando uno si prende solo il suo pane e va a mangiarselo per conto suo. Quella è giustizia, ma una volta che è avvenuta la giustizia, non ci sarà ancora la pace. La pace è qualcosa di più: è convivialità, cioè mangiare il pane insieme agli altri… La pace cos’è? La convivialità delle differenze, quando si mettono a sedere alla stessa tavola persone diverse, che noi siamo chiamati a servire”
Esodo: lasciare il potere, la volontà di dominio.

Colman McCarthy, "Preferirei insegnare la pace":
“Come insegnante sono convinto che finché non insegneremo la pace ai nostri figli, qualcun altro insegnerà loro la violenza”.
“Il perdono guarda avanti, la vendetta indietro”

Elie Wiesel: “L’umanità deve tenere a mente che la pace non è un dono divino alle sue creature, è un nostro dono reciproco”.

Khalida Messaudi: “La nostra cultura, la cultura maghrebina ci insegna che quando il cammino ci appare bloccato, quando siamo in un tunnel senza luce, non bisogna esitare a usare la luce e gli occhi della parola, che sono anch’essi un cammino”.

Amos Oz, "Contro il fanatismo":
“Un conto è dar la caccia a un manipolo di fanatici sui monti dell’Afghanistan o per i meandri di Gaza e Baghdad. Tutt’altra cosa è invece arginare, guarire dal fanatismo”.

La consueta pretesa del fanatismo: “Visto che secondo me qualcosa è male, la elimino insieme a ciò che la sta intorno. Il fanatismo è più antico dell’islam, del cristianesimo, dell’ebraismo, più antico di ogni stato o governo, d’ogni sistema politico, più antico di tutte le ideologie e di tutte le confessioni del mondo”
“Come comportarsi con gente che è in sostanza un punto esclamativo ambulante?”
“C’è un qualcosa nella natura del fanatico, un che di fondamentalmente sentimentale e al tempo stesso del tutto priva di fantasia. E questo mi dà una speranza, la speranza invero molto remota, che iniettare un poco di immaginazione nella gente possa servire, chissà, a far sentire a disagio il fanatico. Non è un rimedio rapido, non è una cura lampo, ma può funzionare”.

“Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte. Sono sposato con la stessa donna da quarantadue anni: rivendico un briciolo di competenza, in fatto di compromessi… Quando dico compromesso non intendo capitolazione, non intendo porgere l’altra guancia a un avversario, un nemico, una sposa. Intendo incontrare l’altro, più o meno a metà strada” .

“Il fanatico è la creatura più disinteressata che ci sia. Il fanatico è un grande altruista. Il fanatico è più interessato a te che a se stesso, di solito. Vuole salvarti l’anima, vuole redimerti, vuole affrancarti…Bin Laden fondamentalmente vi ama. L’11 settembre è stato un travaglio d’amore”.

“La letteratura contiene un antidoto al fanatismo, per il fatto stesso di iniettare immaginazione nei suoi lettori. Mi piacerebbe poter prescrivere, nero su bianco: leggete letteratura e guarirete dal vostro fanatismo”.
“Il senso dell’umorismo è un’ottima terapia. In vita mia non ho ancora visto un fanatico dotato di senso dell’umorismo, e non ho nemmeno mai visto una persona dotata di senso dell’umorismo diventare un fanatico, a meno di non perdere il senso dell’umorismo”

Gandhi: “La non violenza non è un vestito che possiamo mettere e togliere quando ci pare. Essa abita nel cuore, e deve essere una parte inscindibile del nostro essere”
“Sbagliano di grosso quelli che non praticano la non violenza nei loro rapporti personali con gli altri, ma sperano di usarla nelle questioni più grandi…”
“Il mio ottimismo si fonda sulla fede nelle infinite possibilità dell’individuo di sviluppare la non violenza. Più la si sviluppa nel proprio animo, più essa diventa contagiosa fino a espandersi in ciò che ci circonda, e potrebbe inondare in breve tempo il mondo intero”
“Il coraggio consiste nel morire, non nell’uccidere”.

 

… Le parole per continuare …

Riferimenti bibliografici a cura di Paolo Ciampi

Aung San Suu Kyi, Libera dalla paura, Sperling & Kupfer 1996

I suoi sostenitori la chiamano la “signora del destino”, un’espressione quasi eccessiva per questa donna minuta, che a vederla trasmette un senso di fragilità. Però da quasi 20 anni, armata solo del suo sorriso e delle sue parole, Aung San Suu Kyi combatte la dittatura del suo paese bellissimo e dolente, la Birmania. E i militari al potere preferirebbero trovarsi di fronte un esercito di guerriglieri, piuttosto che questa donna che leader della democrazia è diventata quasi per caso. Dopo tanti anni trascorsi in Inghilterra torna in Birmania per assistere la mamma malata e intanto scoppia la rivolta contro i militari. E lei non può più chiudere gli occhi su tutto questo…. Un libro sul coraggio e la coerenza…
“Non è il potere che corrompe, ma la paura…”

Rigoberta Menchu, Mi chiamo Rigoberta Menchu, Giunti 2006

Un altro libro – intenso, sconvolgente, rivelatore - da leggere o da rileggere, scritto da un’india che, nelle parole di Eduardo Galeano, “è stata intessuta con i fili del tempo”. L’orrore di un piccolo paese come il Guatemala, straziato da una dittatura militare e da una guerra che avuto un prezzo di sangue da capogiro. L’orrore subito e sopportato da Rigoberta, nel calvario della sua famiglia; il padre bruciato vivo durante un’occupazione pacifica, la madre rapita, violentata, torturata, il fratello massacrato con la moglie e i figli… E lei costretta a fuggire all’estero per salvarsi, lei giovane india che solo a diciassette anni impara a scrivere e che invece di convertirsi in un monumento all’odio diventa il simbolo della resistenza pacifica e della dignità del suo popolo… Fino al premio Nobel per la Pace, nel 1992, 500 anni dopo la scoperta dell’America. Un libro che è una straordinaria testimonianza di come una donna comune possa fare la differenza.
“Questa è la mia causa,e, come dicevo in precedenza, è una causa che non è nata da qualcosa di buono, ma da qualcosa di cattivo, da qualcosa di amaro… La mia scelta di lotta non ha dunque limiti di spazio, e per questo sono andata ovunque ho avuto la possibilità di raccontare qualcosa del mio popolo. Ma parlare del mio popolo richiede molto tempo, altrimenti non si può capire”.

Virginia Woolf, Le tre ghinee, Feltrinelli 2000

Inverno 1937-38, l’ombra lunga della guerra si è distesa ovunque in Europa e in Spagna è già una tragica realtà. Virginia Woolf immagina di ricevere tre lettere che contengano una richiesta in denaro per tre cause: la prevenzione della guerra, una università femminile, l’assistenza alle donne che vogliono esercitare una professione.
Lettere immaginarie, ma autentiche le risposte, sentite in profondità, urlate con la forza dello sdegno. Un libro che con una rara intensità individua il filo comune, niente affatto scontato ai tempi, che unisce gli orrori della guerra, la brutalità del potere e l’esclusione delle donne dalla vita pubblica. Nell’aprile 1938, alla fine di questo lavoro, la Woolf scrive nel suo diario: “Hitler dunque sta accarezzando i suoi spinosi baffetti. L’intero mondo trema: e il mio libro sarà forse come una farfalla sopra un falò consumato in meno di un secondo”.
"Il modo migliore per aiutarvi a prevenire la guerra non è di ripetere le vostre parole e seguire i vostri metodi, ma di trovare nuove parole e inventare nuovi metodi. Non è di entrare nella vostra associazione, ma di rimanere fuori pur condividendone il fine. E il fine è il medesimo: affermare il diritto di tutti - di tutti gli uomini e di tutte le donne - a vedere nella propria persona i grandi principi della Giustizia, dell'Uguaglianza e della Libertà".

Cindy Sheehan, Mamma Pace – Contro la guerra, per i nostri figli, Speriling & Kupfer 2006

E’ il 4 aprile 2004: in un’imboscata il giovane soldato Casey, arrivato da appena 5 giorni in Iraq, viene fulminato da una pallottola alla nuca. Non ci sono parole per esprimere lo strazio della madre, Cindy: ma quel giorno in cui tutto sembra finire anche per lei, è anche il giorno in cui comincia un cammino di pace e speranza.
“Perché mio figlio è morto?”. Dalla domanda che è la domanda di tutte le madri in tempi di guerra Cindy esige risposte vere, non condoglianze. Le esige dai generali e da tutti i potenti del suo paese. E per ottenerle non esita a piantare una tenda davanti alla casa di George Bush e aspettare, aspettare mentre per milioni di americani diventa “Mamma pace”. In questo libro racconta la sua storia.
“Quel giorno divenni una persona in grado di cambiare. Da semplice madre mi trasformai in madre della pace. Da timida e incapace in pubblico mi trasformai in un’oratrice coraggiosa e forte.
Da persona che non aveva mai scritto mi trasformai in autrice infiammata dal desiderio di scoprire la verità.”

Mariane Pearl, Un cuore grande, Sonzogno 2004

Forse qualcuno si ricorda ancora il suo volto splendidamente dolce, come un dono offerto al mondo intero. Mariane era la moglie di Daniel, giornalista del Wall Street Journal che il 23 gennaio venne rapito dai fondamentalisti in Pakistan. Quella sera lei, incinta di cinque mesi, lo aspettò per una cena da amici: ma lui non ritornerà più. Pochi giorni più tardi venne decapitato, qualche settimana dopo spedirono un filmato con le sue ultime parole, qualche mese più tardi ritrovarono il suo corpo, tagliato in dieci pezzi.
Al momento del sequestro, Mariane rivolse un appello così pacato, così tenero, da stupire il mondo. Il suo sorriso sconcertò molti, come le sue parole dopo la tragedia, prive di qualsiasi spirito di vendetta.
Questo libro racconta questa storia di coraggio e ottimismo malgrado tutto, che unisce nella vita e nella morte Mariane, Daniel e il piccolo Adam, il figlio che con la sua nascita rappresenta la vita che resiste e va avanti. Se è vero che la pace si fa con i nemici, non con gli amici, è anche vero che uno dei meccanismi che utilizza la guerra è negare l’umanità del nemico: il che, dice Terzani, è il segreto della disumanità di tutte le guerre. Mariane Pearl, con le sue parole, con la sua vita, ci dimostra che l’orrore del mondo può richiamare il meglio di noi, non solo il peggio.
“Scrivo questo libro per te, Danny, perché hai avuto il coraggio di un atto profondamente solitario: morire in prigionia, ma con il cuore indomito… Scrivo questo libro per dimostrare che avevi ragione: il compito di cambiare un mondo pieno d’odio spetta a ciascuno di noi…Scrivo questo libro per te, Adam, perché tu
sappia che tuo padre non era un eroe, ma un uomo normale. Un eroe normale con un cuore grande. Scrivo questo libro per te, perché tu possa essere libero”.

Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori 2003

Che idea avremmo della guerra senza le immagini che, fotografie o filmati che siano, di essa ci sono arrivate? Cosa muovono in noi, quelle stesse immagini? Orrore o indifferenza? La rabbia di chi vuole vendicare il torto subìto o quell’inconfessabile richiamo per l’atrocità che è anche di chi si ferma a un incidente per strada, non per soccorrere ma per “vedere”? E poi, che guerra ci raccontano, le immagini di guerra? Che verità c’è nei soldati ripresi mentre piantano la bandiera a Iwo Jiwa oppure nella bambina vietnamita che fugge ai bombardamenti? E nelle guerre che ci arrivano senza immagini e forse per questo nemmeno ci arrivano? E’ a domande come queste che risponde il saggio breve, denso, appassionante di Susan Sontag, intellettuale americana che la guerra non l’ha studiata solo a casa, ma affrontata nelle sofferenze della gente di Sarajevo. Come al solito, visto l’autore, pagine assolutamente non banali, pagine che parlano a tutti noi e ci inchiodano a una diversa consapevolezza del nostro modo di “guardare” la guerra.
“Non si dovrebbe mai dare un ‘noi’ per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli altri”
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Colman McCarthy, Preferirei insegnare la pace, Esperia 2003

Per quasi 30 anni è una delle firme del prestigioso Washington Post, ma un giorno viene invitato a tenere un corso di scrittura presso una scuola pubblica. Quasi senza rendersene conto gli scappano queste parole: “Preferirei insegnare la pace”. Da allora diventa proprio questo il suo lavoro – e la sua missione. Tra prestigiose facoltà di legge e disastrati riformatori, l’esperienza di un giornalista che ha deciso di diventare un insegnante di pace e nonviolenza.
“Come insegnante sono convinto che finché non insegneremo la pace ai nostri figli, qualcun altro insegnerà loro la violenza” “Per me insegnare qualunque materia diversa dalla pace significherebbe vagare attraverso un deserto intellettuale. La Terra è un piccolo pianeta e la nostra visita troppo breve per potersi dedicare ad altro che alla lotta per la pace”.

Gino Strada, Pappagalli verdi. Cronache di un chirurgo di guerra, Feltrinelli 1999

Non fa male rileggere questa testimonianza, preziosa come preziosa è la persona che racconta e si racconta. La guerra in presa diretta, non per sentito dire o come spettacolo mass-mediatico, la guerra vissuta in prima linea dall’uomo che arriva quando tutti scappano per mettere in piedi ospedali di fortuna. “Chi salva una vita, salva l’intero universo e così progetta la salvezza di noi tutti”, spiega Moni Ovadia nell’introduzione. Lui, è facile immaginarsi, di queste parole non saprebbe che farsene: piuttosto chiederebbe informazioni su quello che c’è ancora da fare.
“Cosa vorresti fare da grande? Quando ero un ragazzino, rispondevo ‘il musicista’ o ‘lo scrittore’. Ho finito col fare il chirurgo, il chirurgo di guerra per la precisione. E ho chiuso da tempo con la nostalgia e il rimpianto di non saper suonare uno strumento né scriver un romanzo… Non mi illudo certo di aver partorito un libro di valore. Spero solo che si rafforzi la convinzione, in coloro che decideranno di leggere queste pagine, che le guerre, tutte le guerre, sono un orrore”.

Tonino Bello, Il fuoco della pace, Fraternità di Romena 2007

La pace come un acronimo inatteso che ci indica un cammino verso la speranza: la preghiera e l’audacia, la convivialità e l’esodo, quest’ultimo inteso come esortazione ad abbandonarci alle spalle le tentazioni del potere, la volontà di dominio su chi ci sta accanto. Da un incontro di oltre 20 anni fa del presidente di Pax Christi, parole sempre attuali che ci restituiscono il cuore di un uomo di frontiera che ci ha salutato troppo presto.
“La pace non viene quando uno si prende solo il suo pane e va a mangiarselo per conto suo. Quella è giustizia, ma una volta che è avvenuta la giustizia, non ci sarà ancora la pace. La pace è qualcosa di più: è convivialità, cioè mangiare il pane insieme agli altri… La pace cos’è? La convivialità delle differenze, quando si mettono a sedere alla stessa tavola persone diverse, che noi siamo chiamati a servire”.

Amos Oz, Contro il fanatismo, Feltrinelli 2004

Un piccolo grande dono di uno dei più grandi scrittori viventi al mondo. Poche decine di pagine da leggersi di un fiato, tra ricordi di vita e digressioni letterarie, per una straordinaria riflessione sul fanatismo, inteso nella sua essenza come smania di voler cambiare l’altro, cioè in effetti di annullare l’altro. Il tutto accompagnato da alcune “medicine” utili a debellare un virus che è dentro ciascuno di noi: e allora aiutiamoci con la capacità di guardarci con gli occhi degli altri – “sarei potuto essere uno dei miei nemici. Immaginare tutto questo è una pratica sempre utile” – aiutiamoci con i buoni libri e l’umorismo – “In vita mia non ho ancora visto un fanatico dotato di senso dell’umorismo” – aiutiamoci con l’arte del compromesso, perché la pace non è un’altisonante dichiarazione d’amore, la pace può essere incontrarsi con l’altro a metà strada. Un compromesso utile anche per sciogliere il nodo dei nodi, il conflitto in Palestina, una terra con due popoli e due diritti.
“Non sto invocando un relativismo morale assoluto, certo che no: sto invece propugnando la necessità di immaginarsi a vicenda…Anche quando si ha ragione al cento per cento, e l’altro ha torto al cento per cento, anche in quel momento è utile immaginare l’altro”

GALLERIA AL FEMMINILE DI AMALIA CIARDI DUPRE'



 


 

Amalia Ciardi Duprè durante l'incontro alla Cittadella della Pace di Rondine


Foto dell'incontro di Alessandro Ferrini